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Turchia, il laboratorio islamico delle speranze tradite

by redazione

di Enrico Campofreda (giornalista, esperto di questioni mediorientali)

Cent’anni di Atatürk – La Turchia erdoğaniana finita sotto i riflettori dei media mondiali per il tentato golpe di metà luglio – ma lo era da mesi per lo stillicidio di attentati, il conflitto interno con la comunità kurda, la crisi siriana ai confini – è stata per un quindicennio un interessante laboratorio geopolitico. Ha raccolto consensi e speranze di ampi strati della popolazione, che già nei Novanta avevano assaggiato la cura liberista del premier e poi presidente Turgut Özal. momenti tentato golpe Una scelta che ha richiesto contropartite strategiche, ribadendo la stretta osservanza Atlantica di quell’esercito – il secondo per numero dell’alleanza Nato – che nella storia recente aveva posto per quattro volte il peso degli anfibi sulla testa e sul cuore dei cittadini turchi. Una lobby potentissima quella militare, strettamente legata alle radici kemaliste della nazione di Atatürk, che ha comunque subìto, durante il governo del sedicente islam moderato, un progressivo ridimensionamento del suo filo occidentalismo. Indagini e successivi processi organizzati contro taluni apparati delle Forze armate (nel 2007 scoppiò il caso Ergenekon) evidenziavano un disegno volto a creare strutture segrete e parallele per condizionare la politica e sovvertire l’andamento del cammino democratico che, dopo i colpi di Stato del 1960, 1971, 1980, 1997, decennio dopo decennio, provava a ripartire.

Il volo turco – Il liberismo e l’immersione in rapporti di mercato hanno aiutato il Paese, assieme alle copiose rimesse degli emigrati, a raccogliere investimenti stranieri e sviluppare un capitalismo autoctono che ha raggiunto livelli avanzati nel campo manifatturiero, ma non ha tralasciato settori di tecnologia meccanica. L’economia è volata, il Pil interno ha toccato punte a doppia cifra mentre l’Europa, al tempo stesso agognata e matrigna, viveva fasi alterne di recessione.

Tutto ciò ha fatto progredire socialmente strati della popolazione, ha sensibilmente allargato il ceto medio che, dalle campagne alle città, ha visto di buon occhio la marcia modernista dell’ultimo partito islamico lanciato sulla scena politica, dopo chRecep Tayyip Erdogane diverse formazioni erano state perseguitate da militari e uomini del potere kemalista, sia socialdemocratico sia nazionalista. Il partito della Giustizia e dello Sviluppo, col simbolo “edisoniano” della lampadina, ha acceso i cuori di molti turchi. Di anziani che rammentavano la miseria e il terrore delle passate repressioni, di giovani affacciati alla vita d’una nazione in ascesa, capace d’offrire lavoro e speranze di progresso. Accanto ai capitali europei (tedeschi, inglesi, italiani) inseriti nei processi produttivi sul territorio, l’islam rinverdito nel Parlamento oltre che nelle moschee, raccoglieva i petrodollari delle monarchie del Golfo. E con essi anche più d’un successivo problema.

Partito regime – Il raggruppamento islamista di cui Recep Tayyip Erdoğan diventa leader, l’Adalet ve Kalkınma Partisi (Akp), compie una marcia trionfale nei quattro appuntamenti elettorali del 2002, 2007, 2011, 2015. Parte dal 3erdo+consorte4,3% e giunge al 49% dei voti, diventando una sorta di partito-nazione. Riceve l’appoggio trasversale di industriali e operai, agricoltori dell’Anatolia profonda e mercanti dei bazar, quelli di Bursa e della cosmopolita Istanbul, e di un’infinità di impiegati nei servizi statali e privati. Una crescita che, anno dopo anno, si trasforma in consenso e gradualmente in regime. Riguardo ad antiche e sanguinose questioni interne, come il conflitto con la numerosa minoranza kurda che nel sud-est conta 15 milioni di abitanti, Erdoğan si barcamena. Deve fare i conti col fortissimo nazionalismo di casa che odia i kurdi, agli inizi del suo mandato (2002) è ancora organizzato nelle bande paramilitari dei famigerati “Lupi grigi” e comunque anche agli occhi dell’esercito, dei turchi laici e islamici ogni minoranza non gode di buona considerazione. Su questo terreno la storia della Turchia kemalista riesce a essere meno tollerante di quella dei sultani, che accettavano la multietnicità e anche varie fedi. La componente politica kurda, organizzata nel partito dei Lvittime kurdeavoratori (Pkk), aveva combattuto negli anni Novanta un feroce conflitto con l’esercito turco, subendo oltre 40.000 vittime ma infliggendo severi colpi all’apparato repressivo statale.

Doppiogioco – Erdoğan cerca di sparigliare il campo e presentarsi in veste dialogante e progressista, ma il suo è “doppismo”. Come certi statisti il premier, che è stato calciatore e sindaco di Istanbul, ama il rischio e pratica il doppio gioco. Nel periodo dei massacri israeliani a Gaza (2008), mentre il suo ministro degli Esteri Davutoğlu aveva teorizzato una linea estera pacifica riassunta nel motto «zero problemi coi vicini», lancia due iniziative: una internazionale di sostegno ai fratelli palestinesi oppressi dall’occupazione sionista, l’altra interna ai combattenti kurdi. A quest’ultimi parla di pacificazione, avviando colloqui col loro carismatico leader, Abdullah Öcalan, dal 1999 rinchiuso nel carcere di massima sicurezza in un’isola nel Mar di Marmara. Il pragmatico Öcalan ci sta e prepara una piattaforma che dice cose nuove, non rivendicando più territori ma proponendo l’autodeterminazione.

Fra il 2010 e il 2011, Erdoğan consegue una popolarità stratosferica confermata dal pieno dei suffragi elettorali. Rammoderna il Paese senza tralasciare opere pubbliche e servizi, ne rilancia un ruolo di primo piano nel travagliato Medio Oriente, per l’invidia delle potenze concorrenti: Arabia Saudita e Iran. L’islam politico di cui si fa portatore è capitalistico e liberista quanto basta per attirare le simpatie degli imperialismi occidentali, delle Borse; inoltre per il suo conservatorismo tradizionalista può essere un’alternativa al ribellismo sociale e alle forme presenti nell’islam della ‘Sha’aria’ sostenuto dall’oltranzismo wahabbita e deobandi e di tutti coloro, da Qaeda ai taliban, che praticano il Jihad.

Un esperimento imploso – Il modello turco è un esperimento con cui le “primavere arabe”, sbocciate all’inizio del 2011, si confrontano e i leader occidentali lo carezzano. Eppure tutto durerà lo spazio d’un mattino. Sarà proprio il successo elettorale delle famiglie politiche della Fratellanza musulmana, quella tunisina ed egiziana che prenderanno il potere legalmente e lo perderanno a seguito di eventi diversi, a spingere il governo di Ankara e il suo megalomane interprete verso avventure sempre più controverse. Quelle in corso al di là dei propri confini, con la ribellione ad Assad trasformatasi in guerra civile e conflitto per un “cambio di regime”, rappresenterà una vera trappola per la Turchia. Perché l’uomo del destino giocherà come al solito su più tavoli, in realtà su uno e mezzo, visto che per tre anni sosterrà solo a parole un conflitto contro il jihadismo, dal 2013 diventato il padrone del fronte ribelle e dal 2014 oscurato dalla stanzialità dell’Isis in terra di Siria.

Anche da presidente della patria turca (l’elezione avviene nell’agosto 2014) Erdoğan assume comportamenti inquietanti. Il più clamoroso è rivelato nell’autunno 2015 dal quotidiano Cumhuriyet con foto e video: le presunte medicine stipate in casse da portare oltre il confine siriano ai profughi sono batterie di missili da destinare ai jihadisti. Tutto sotto la scorta dell’Intelligence di Ankara e col benestare del governo dell’Akp. L’ennesimo passo pro-jihad aggiunto al transito di migliaia di combattenti islamisti che raggiungono la Siria dai confini turchi.

 

Chi attenta chi – Can Dündar, il direttore del giornale d’opposizione, finisce in galera con l’accusa di attentato alla “sicurezza nazionale”. La realtà viene rovesciata. Chi attenta a chi, è il leitmotif degli oppositori a quella che si presenta come una dittatura mascherata. Un tema sollevato già nei giorni delle contestazioni di Gezi Park, un angolo verde della Istanbul che faceva sognare ragazzi e anziani conservando, fra le rampanti modernizzazioni cittadine, una briciola del profumo del Bosforo dei tempi andati.

Gezi park, soffocata È il giugno 2013, la gente vuole salvare il parco, il governo vuole sostituirlo con caserme e centri commerciali. La protesta viene spazzata via con gas urticanti e pallottole di gomma, mentre pallottole vere cancellano la vita a nove çapulcu (che in turco significa vandalo, il termine usato dal premier per definire i manifestanti) ferendone oltre ottomila. Come in un’accelerazione da cinepresa il Paese passa dalla repressione della società civile al soffocamento di quella mediatica, uno degli esempi è l’esautoramento del management del Koza İpek Holding’s media messo nelle mani d’imprenditori e giornalisti fedeli al governo.

Il progetto politico che l’Atatürk islamico cavalca, facendo leva su un innato carisma populistico, mostra un volto ferocemente cupo e autoritario. Eppure ogni misura che limita la libertà della diversità, di minoranze etniche, di giornalisti e giudici, degli oppositori di matrice progressista e di sinistra, viene sempre introdotta in nome della patria e del popolo turco. Erdoğan si fa scudo del Parlamento e l’auspicato presidenzialismo, attuato nei fatti e non ancora nella norma, attende anch’esso l’approvazione del Meclis.

Islam da moderato a reazionario – I mesi scorsi in cui la nazione è stata attraversata da una serie impressionante e sanguinosissima di attentati, molti di matrice jihadista (una sorta di punizione all’affievolirsi di quel sostegno che nel triennio 2013-2015 era stato ampio e variegato) ma anche della guerriglia kurda, che vendica le centinaia di civili assassinati e lo stato d’assedio di molte province del sud-est, hanno mostrato un Erdoğan rivolto al più oscuro nazionalismo.

Il presidente cerca il consenso dell’ultra-destra, un tempo nemica dell’islam fatto movimento e partito, e ora cooptata contro gli attentatori interni ed esterni delle radici turche.Gulen-erdogan Si diffonde un’aria securitaria e fascistoide che piace ai nostalgici del militarismo di Stato, ai gruppi armati pro governo verso i quali la polizia chiude entrambi gli occhi. Comunque Erdoğan, uomo d’ordine, non è amato da altri uomini d’ordine. In aggiunta la polarizzazione contro i kurdi dopo lo stop alle trattative, contro gli oppositori e i comunicatori d’ogni genere, compresi i blogger, ha acceso contrasti sempre più aspri anche con gli ex amici e seguaci del ricco imam Fethullah Gülen. Il movimento gülenista, noto con la sigla Hizmet (Servizio) aveva da oltre un ventennio programmato d’inserire suoi adepti nei gangli vitali dello Stato un tempo kemalista (Forze armate, magistratura, scuole e università, amministrazione centrale e locale).

Rischi d’una tragedia – Quest’entrismo diventa oggetto di una lotta senza esclusione di colpi da quando, nel 2013, i due leader si allontanano e si separano. Il fallito golpe delmilitari legati 15 luglio 2016 può essere considerato il capolinea dello scontro a distanza fra ex sodali, con le conseguenti vendette che si preannunciano crudeli. E che esulano dalla personalizzazione delle creature social-politiche dei contendenti e vanno a intaccare l’entità democratica della nazione e del suo popolo. Questo rischia l’odierna Turchia con la sospensione della Convenzione europea sui diritti umani e la possibile introduzione della pena di morte. Il panorama d’una repressione generalizzata è sotto gli occhi d’un mondo silente, dal 16 luglio scorso si succedono migliaia di arresti che non colpiscono solo i militari fedifraghi.  Si contano sessantamila fra licenziamenti e rimozioni forzate di magistrati, amministratori pubblici, insegnanti d’ogni ordine e rango, giornalisti. Undicimila ritiri di passaporti e la minaccia perenne, che cammina per via coi sostenitori del presidente-castigatore mobilitati a insultare e minacciare l’altra parte della popolazione che vuol pensare e vivere diversamente. La Turchia appare un Paese piegato ai giochi di potere e alla volontà di potenza d’un politico che vuol essere padre e figlio, governante e popolo, che ormai forgia uomini e donne a una dimensione.

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Turchia, il laboratorio islamico delle speranze tradite – Articolo21 26 Luglio 2016 - 14:05

[…] Cent’anni di Atatürk – La Turchia erdoğaniana finita sotto i riflettori dei media mondiali per il tentato golpe di metà luglio – ma lo era da mesi per lo stillicidio di attentati, il conflitto interno con la comunità kurda, la crisi siriana ai confini – è stata per un quindicennio un interessante laboratorio geopolitico. Ha raccolto consensi e speranze di ampi strati della popolazione, che già nei Novanta avevano assaggiato la cura liberista del premier e poi presidente Turgut Özal.  Una scelta che ha richiesto contropartite strategiche, ribadendo la stretta osservanza Atlantica di quell’esercito – il secondo per numero dell’alleanza Nato – che nella storia recente aveva posto per quattro volte il peso degli anfibi sulla testa e sul cuore dei cittadini turchi. Una lobby potentissima quella militare, strettamente legata alle radici kemaliste della nazione di Atatürk, che ha comunque subìto, durante il governo del sedicente islam moderato, un progressivo ridimensionamento del suo filo occidentalismo. Indagini e successivi processi organizzati contro taluni apparati delle Forze armate (nel 2007 scoppiò il caso Ergenekon) evidenziavano un disegno volto a creare strutture segrete e parallele per condizionare la politica e sovvertire l’andamento del cammino democratico che, dopo i colpi di Stato del 1960, 1971, 1980, 1997, decennio dopo decennio, provava a ripartire… Continua su confronti […]

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