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Petrolio (Ecuador)

by Nadia Angelucci

di Nadia Angelucci. Giornalista e autrice.

Il territorio dove viveva la popolazione waorani, in Ecuador, è dagli anni ‘50 sotto attacco dell’avanzata delle compagnie petrolifere (e dei missionari). Quello che era un “paradiso” è diventato un luogo di rumore e desolazione.

«Quando vivevamo nella selva i fiumi erano ricchi di pesci e i guerrieri con le loro lance cacciavano scimmie e uccelli.
Le nostre case, onko, erano capanne costruite con legno e paglia e si ergevano placidamente al centro della chacra, il giardino-orto seminato a yuca, banane e piante medicinali. Quando sono nata già ci aggrediva il rumore delle motoseghe che tagliavano i nostri alberi e le voci dei lavoratori del caucciù, poi sono arrivati i missionari e le imprese petrolifere».

Doña Tepaa Quimontari racconta.

È un’anziana waorani che vive in una comunità sulla via Auca, la strada aperta dalle compagnie petrolifere per collegare la città di Coca, nella provincia di Orellana, ai pozzi di estrazione nella selva.

La comunità in cui vive si trova nella concessione petrolifera 14/17, pozzo Kupi 4, dove opera la compagnia Andes Petroleum Ecuador, un consorzio creato nel 2006 dalle società statali cinesi China National Petroleum e China Petrochemical.

La comunità di Tepaa vive in un limbo, tra il ricordo di un passato legato all’abbondanza e all’armonia con la natura, e l’attualità di un presente fatto di miseria e sradicamento. Nelle crepe di questa incertezza si insinua il miraggio degli waorani che al momento dell’incontro con l’ “Occidente” hanno scelto di non avere contatti con la società dominante e vivono in isolamento volontario.

«Ero giovane quando dei piccoli aerei hanno cominciato a volare sulle nostre teste e sono arrivate le compagnie petrolifere. Hanno tagliato gli alberi e rivoltato la terra per cercare l’oro nero. Mio fratello Taga ha deciso di immergersi nella selva più profonda e alcuni l’hanno seguito, noi abbiamo deciso di ascoltare i missionari. Ci avevano detto che quella terra era diventata pericolosa per noi e che non avremmo più avuto nulla da mangiare. Se li avessimo seguiti avremmo conosciuto Dio».

Tra gli anni ‘50 e gli anni ‘60, in concomitanza con l’avanzata delle compagnie petrolifere, i missionari dell’Istituto linguistico de Verano cominciano l’opera di evangelizzazione degli waorani in Ecuador.

Doña Tepaa li segue e si ritrova a vivere in una “zona di protezione”, una specie di riserva. Si ferma lì per qualche anno ma i suoi figli le chiedono di conoscere la terra dei loro avi e così torna nei luoghi della sua infanzia.

«Quando siamo tornati abbiamo trovato la nostra terra devastata, gli alberi tagliati, l’acqua contaminata; i pesci morivano e le scimmie erano scomparse.
Già non si sentiva più il verso del tucano. La strada si spingeva profondamente nella selva ed era disseminata di pozzi petroliferi e campi aperti dai coloni».

La storia dell’estrazione petrolifera in Ecuador risale agli anni ‘20 ma raggiunge il suo apice negli anni ‘60.
È una storia di devastazione del territorio e sfruttamento smisurato che in ogni fase di attività genera impatti disastrosi per il territorio. Nella ricerca, perforazione ed estrazione si destabilizza il suolo, si deforesta, si mina la biodiversità, si contaminano le acque, si avvelenano piante e animali e l’atmosfera.

È così che il paradiso di Tepaa e dell sua gente è diventato un luogo di rumore e desolazione.

La strada polverosa penetra nel bosco e apre spazi dove lavorano incessantemente trivelle e le ciminiere bruciano nell’aria il gas. Camion di tubature e cisterne generano un traffico continuo di fracasso ed esalazioni nauseabonde.

Le comunità indigene che vivono in questo territorio sono state spogliate di tutto: la loro fonte di sussistenza, la foresta e i suoi fiumi, sono in uno stato critico; la loro cultura si è smarrita nell’impatto con il consumismo; le loro divinità, confuse, non riescono più a parlare.

Lo sviluppo ha sottratto le radici e regala solo pochi frutti, in una relazione in cui impone una pressione che scioglie con pochi spiccioli.

«Ora, come voi, indosso vestiti, mangio riso, pollo, tonno, non più la yuca o il tucano della mia infanzia. Avevo uña de gato e sangre de drago per curarmi, e non ci sono più. Ai miei nipoti e ai miei figli dico che dobbiamo fermare il petrolio, conservare il nostro territorio. Ai fratelli waorani che sono nella selva dico che stanno custodendo la nostra terra; che se non ci fossero loro la colonizzazione e le compagnie petrolifere avrebbero nelle loro mani un territorio molto più grande».

[pubblicato su Confronti 02/2020]

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