Omicidio ambasciatore Attanasio. Nonostante le condanne numerose le zone d’ombra - Confronti
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Omicidio ambasciatore Attanasio. Nonostante le condanne numerose le zone d’ombra

by Luca Attanasio

di Luca Attanasio. Giornalista e scrittore

Si chiude il sipario sul processo per l’omicidio dell’ambasciatore Luca Attanasio al termine di un percorso che a detta di molti ha avuto più i caratteri della farsa che quelli dell’accertamento delle verità. Inaugurato a Kinshasa, presso il Tribunale militare, lo scorso 12 ottobre, doveva giudicare i presunti colpevoli delle uccisioni, oltre che del nostro diplomatico, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista del Programma alimentare mondiale (Pam) Mustapha Milambo, occorse nella regione del Nord Kivu della Repubblica Democratica del Congo, il 22 febbraio del 2021. Gli uomini alla sbarra erano cinque, Shimiyimana Prince Marco, Murwanashaka Mushahara André, Bahati Antoine Kiboko, Amidu Sembinja Babu detto Ombeni Samuel e Issa Seba Nyani. Un sesto, Ikunguhaye Mutaka Amos detto Uwidu Hayi Aspera, era giudicato in contumacia perché latitante. Ergastolo e condanna al pagamento di due milioni di dollari è stata la sentenza letta dai giudici congolesi al termine dell’ultima udienza di venerdì 7 aprile.

Agli imputati venivano contestati i reati di «omicidio, associazione a delinquere, detenzione illegale di armi e munizioni da guerra». Tre dei cinque indagati sono stati assolti dall’imputazione di detenzione di armi da guerra ma ugualmente condannati, come gli altri, all’ergastolo. Rispetto alla prima richiesta risalente all’8 marzo, i magistrati congolesi sono addivenuti a più miti consigli passando dalla pena di morte al carcere a vita. Ciò anche grazie alle richieste dello Stato italiano, costituitosi parte civile nel procedimento, e della famiglia che, per bocca della moglie Zakia (che aveva anche lanciato una petizione attraverso la Fondazione Mama Sofia, istituita in Congo assieme al marita e ora da lei presieduta) e del padre Salvatore, si erano espressi contro la richiesta di pena capitale. Ora si aspetta di sapere se le difese impugneranno la sentenza o se il giudizio pronunciato dai magistrati congolesi metterà la parola fine a un percorso a dir poco accidentato.

Il processo, infatti, fin dalle primissime mosse, semina molte più perplessità che certezze. Proviamo a tracciarne una timeline che tenga conto degli snodi principali.

GLI SNODI DEL PROCESSO

Tutto trae le sue origini dagli arresti operati dalle forze di polizia del Nord Kivu sotto gli ordini del generale Aba Van Ang, a gennaio del 2022. Le immagini fatte circolare da agenzie locali, mostrano sei presunti esecutori dell’agguato mortale del 22 febbraio dell’anno prima, scalzi, mal vestiti e in manette sul prato antistante il posto di polizia. Ma già attorno a questa prima, cruciale evenienza si concentrano un’infinità di dubbi. Intanto, sorprende che dopo mesi di inutile attesa che le autorità congolesi forniscano notizie e collaborazione ai nostri inquirenti e alla famiglia, la prima presunta svolta nelle indagini che dovrebbero assicurare alla giustizia gli esecutori dell’omicidio di un ambasciatore, non la fornisca il presidente Felix Tshisekedi, né un ministro dell’esecutivo, ma un ufficiale locale. Peraltro il generale Aba Van Ang da’ la notizia in una improvvisata conferenza stampa senza che però né sul momento, né in seguito, venga ufficialmente confermata da Kinshasa. A processo iniziato, poi, in una delle prime udienze, si viene a sapere che i sei indagati, nel primo interrogatorio, sono stati ascoltati senza che nessun legale fosse presente: un aspetto fondamentale per il prosieguo dell’inchiesta, visto che è proprio in quell’occasione che i sei confessarono di aver progettato e condotto l’agguato a fini estorsivi salvo poi ritrattare all’unanimità in sede processuale sostenendo che le confessioni erano state estorte sotto ripetute violenze e tortura. 

In estate, poi, poco prima dell’inaugurazione del processo si consuma un’altra misteriosa anomalia, ma per inquadrarla bisogna fare un passo indietro. Al momento dell’arresto nel gennaio 2022, il generale Aba Van Ang dice alla stampa che il presunto commando era composto da sette persone e che i fermati erano sei perché uno, come detto sopra, era latitante. Ma al processo che si apre a ottobre, alla sbarra compaiono solo cinque, che fine ha fatto il sesto? Il sesto, Mauziko Banyene, non si è mai capito sulla base di quale motivazione, subito dopo una missione del nostro Ros a Goma, capoluogo del Kivu del Nord e il susseguente interrogatorio svoltosi anche alla presenza dei carabinieri italiani lo scorso luglio, è stato rilasciato. Tornato alla sua attività estorsiva nella zona di Mubambiro, alla periferia di Goma, pochi giorni dopo l’inspiegabile rilascio, è stato linciato a morte da un gruppo di persone del suo villaggio che lo riteneva un pericoloso malvivente. 

Secondo gli inquirenti congolesi, poi, il movente alla base dell’agguato era rapina a scopo di estorsione. Ma sulla somma che il commando avrebbe preteso, c’è un’infinita distanza tra le stime degli investigatori congolesi (un milione di dollari) e quella della Procura di Roma basata sul report dei Ros tornati dalla missione a Kinshasa lo scorso luglio (50mila dollari). 

Arriviamo a dicembre quando, nel corso di un’udienza, uno degli imputati, Amidu Sembinja Babu, che aveva firmato il verbale in cui si accusava Shimiyimana Prince Marco di aver materialmente sparato ad Attanasio, dichiara al magistrato Bamusamba Kabamba che il documento è privo di veridicità: «Non so né leggere né scrivere – dice – hanno riportato cose che non ho mai detto né firmato con il mio nome». Un secondo, invece, Bahati Kiboko, riferisce ai giudici che al momento dell’attacco non poteva trovarsi sul luogo perché in stato di detenzione nel carcere di Goma. Sull’evenienza, facilmente riscontrabile visto che, in teoria, basterebbe controllare i registri carcerari, non è mai stata fatta chiarezza. Ogni volta che ne hanno facoltà, inoltre, i cinque alla sbarra sostengono un refrain: «siamo stati brutalmente picchiati, le confessioni sono state estorte con la forza». È strano, certamente, che queste cose le dicano a processo iniziato e non le abbiano riportate, a quanto viene riferito, né agli inquirenti congolesi né ai Ros volati in Congo a luglio proprio per ascoltarli. Il dubbio, però, resta, specie dopo aver saputo che il primo interrogatorio è stato condotto senza che fosse presente alcun legale.

Fin qui, la serie di anomalie e irritualità legate al processo. Il sentimento della famiglia – prima costituitasi parte civile per ottenere gli atti (consegnati solo in parte) e poi ritiratasi proprio a causa delle perplessità riguardo l’intero procedimento – espresso dal padre Salvatore e riportato sul quotidiano Domani all’indomani della sentenza, riassume anche quelle di chi segue la vicenda: «I dubbi restano. Innanzitutto, ci chiediamo se siano davvero loro gli esecutori, date le tante cose da chiarire attorno al processo, ma anche se fossero, resta da capire chi siano i mandanti. Anche sul capo di imputazione originario, poi, noi alla rapina a scopo estorsivo finita male non abbiamo mai creduto. Attendiamo che i nostri legali e gli inquirenti valutino bene gli atti. Uno Stato che si rispetti deve esigere la verità con gli artigli specie se a essere ucciso è un suo rappresentante diplomatico».

DIFFICOLTÀ A COLLABORARE

Ma alle tante irregolarità processuali, va certamente aggiunta l’enorme difficoltà di collaborazione che i nostri inquirenti e le stesse autorità politiche hanno dovuto affrontare fin dal 23 febbraio 2021 con la controparte congolese, a cominciare dal presidente. Felix Tshisekedi, per un anno intero, è sembrato scarsamente interessato alla questione o quanto meno poco attendibile nella sua dichiarata «volontà di assicurare alla giustizia gli esecutori di questo vile agguato».

Nel maggio 2021 ha rilasciato una dichiarazione subito ripresa dalle agenzie di mezzo mondo di “volta nelle indagini” rafforzata anche da un «Abbiamo catturato gli assassini dell’ambasciatore Attanasio, del suo carabiniere e dell’autista del Pam», poi rilevatasi un goffo tentativo dare in pasto ai media agnelli sacrificali: i presunti esecutori, erano appartenenti a gruppi malavitosi locali del tutto estranei all’evento. Nel corso del 2021 è volato due volte a Roma. Il 2 settembre ha incontrato il presidente Sergio Mattarella e la vice ministra degli Esteri Marina Sereni, per una visita lampo durata meno di un’ora.

A ottobre, ha partecipato a Roma al G20 in qualità di presidente di turno dell’Unione africana e, a margine, ha parlato con il premier Mario Draghi. Le aspettative, dopo tali incontri di vertice, erano tante, ci si attendevano atti concreti di collaborazione, la risposta alle due rogatorie fin lì inevase, l’istituzione di commissioni o di procedure per velocizzare il percorso delle indagine. Niente di tutto ciò avverrà per mesi. Bisognerà attendere il luglio del 2022 perché finalmente ai Ros, che erano andati in Congo e ritornati in Italia due volte senza reali risultati, venga permesso di vedere filmati, leggere carte, interrogare i sei indagati e acquisire materiale probatorio. E il 12 ottobre scorso per l’inizio di un processo. 

Anche per quanto riguarda l’altro filone di inchiesta, quello che ha portato la procura di Roma a novembre a rinviare a giudizio i due funzionari del Pam Rocco Leone e Mansour Rwagaza indagati per omesse cautele, si rischia di raggiungere scarsi risultati. I due, infatti, accusati di comportamenti gravissimi e negligenze fatali – hanno “attestato il falso” e «omesso ogni cautela idonea a tutelare l’integrità fisica dei partecipanti e di informare cinque giorni prima del viaggio la missione di pace Monusco preposta alla sicurezza e alla predisposizione di scorta armata e veicoli corazzati» – non solo dai nostri magistrati ma dallo stesso Dipartimento di sicurezza Onu (di cui il Pam fa parte), con tutta probabilità invocheranno l’immunità diplomatica garantita a dipendenti delle Nazioni Unite e non si presenteranno all’udienza preliminare del processo fissata per il 25 maggio prossimo. Eppure le loro responsabilità sono accertate ed evidenti e, sebbene, ovviamente, non si pensa a loro come legati agli esecutori e ai mandanti degli omicidi, si vede in loro i principali imputabili per la mancata protezione e quindi, in qualche modo, la morte dei tre componenti la missione: in piena violazione dei protocolli Onu – è forse l’elemento più grave emerso – Leone e Rwagaza non hanno informato cinque giorni prima del viaggio la forza di pace delle Nazioni unite, Monusco, che si occupa delle sicurezza e, in caso di rischi, di predisporre una scorta armata e veicoli blindati, ben sapendo che il 22 febbraio 2021 il convoglio avrebbe attraversato una delle strade più pericolose d’Africa.

Due anni abbondanti dopo il tragico evento, quindi, per la cui gravità geopolitica e diplomatica oltre che umana, ci si aspettavano reazioni più nette da parte dei governi implicati e dell’Onu, ed esiti più chiari, sono più le frustrazioni e i dubbi ad emergere rispetto alle certezze.

Conclusosi il processo di Kinshasa, la palla passa ora alla Procura di Roma che prosegue il lavoro nell’ambito del secondo filone d’inchiesta sul tentativo di sequestro a scopo di terrorismo di cui sono state vittime i nostri connazionali. Farnesina e Procura di Roma, non sono mai sembrate condividere fino in fondo le perplessità di famigliari e giornalisti sul percorso giudiziario congolese ed hanno espresso a più riprese “cauta fiducia”. Resta, in ogni caso, il sapore amaro di una storia riguardante un bravo diplomatico, che intendeva la sua presenza in Africa non come un peso né come mera occasione di carriera, ma come una vera occasione per portare pace e sviluppo, che rischia di rimanere orfana di verità.

Foto: Kinshasa © Marc Vick – Wikimedia Commons

Luca Attanasio

Luca Attanasio

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