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Economia. Se la politica non è all’altezza della crisi

by redazione

Crisi economica e crisi della democrazia si alimentano reciprocamente: l’aumento delle disuguaglianze, in cui il liberale Keynes avrebbe probabilmente visto la causa principale della crisi, è andato di pari passo con la personalizzazione del conflitto politico e con il venir meno di ogni cultura politica.

Le crisi, si sente dire con insistenza da più parti, sono anche occasioni di cambiamento. È certamente vero. Ma è vero anche l’opposto. Si dice meno spesso che un Paese – o una civiltà – incapace di rispondere alle sfide poste dalla storia è destinato a soccombere.

La storia ha sempre più fantasia di chi pretende di prevederla. Ma, se dovessimo stare a quel che abbiamo visto fin qui, non dovremmo essere molto ottimisti sulle sorti della democrazia costituzionale e liberale che si è affermata dopo la fine della seconda guerra mondiale sulle macerie dei fascismi sconfitti, e che sembrava essersi stabilmente estesa ai Paesi dell’Europa centrale soltanto una ventina di anni fa.

La crisi, probabilmente, si stava preparando da molto tempo. È almeno dagli ultimi anni Settanta, con la fine del sistema di Bretton Woods prima, con le crisi energetiche, con la crisi morale seguita alla guerra del Vietnam, con le rivoluzioni thatcheriana e reaganiana, con lo stabilirsi del cosiddetto Washington consensus, che le democrazie occidentali hanno smesso di agire come grandi macchine di inclusione, magari lente, certo imperfette, e che si è invertita la lunga marcia iniziatasi con la risposta data alla precedente crisi globale, quella iniziata nel 1929. Era stata, ovunque in Occidente e soprattutto in Europa occidentale, una lunga stagione di ampliamento della capacità inclusiva della democrazia liberale, di superamento molto graduale delle disuguaglianze, di sviluppo basato sulla crescita della domanda, e sull’obiettivo della piena occupazione, sulla lenta diffusione del benessere e dell’istruzione a strati sociali che ne erano ancora esclusi.

Fino ad allora l’economia keynesiana era stata il credo dominante dell’establishment occidentale, e dal mondo comunista era ricorrente l’accusa all’economista liberale di Cambridge di avere salvato il capitalismo agonizzante dall’altrimenti certo avvento planetario del socialismo. È il mutamento dei paradigmi avvenuto trent’anni fa che lo fa oggi passare quasi per un sostenitore della pianificazione sovietica.

In ogni caso, è dalla fine degli anni Settanta che la marcia verso l’inclusione e la diffusione del benessere ha cominciato ad essere invertita (anche se in molti Paesi una crescita dei diritti di libertà e della civiltà dei diritti proseguiva almeno nel campo di quelli non economici).

Il fenomeno è stato celato soprattutto da due fattori: la crescita indotta da una rivoluzione tecnologica che ha avuto dimensioni e conseguenze paragonabili a quelle delle due rivoluzioni industriali precedenti, e la politica dell’indebitamento facile.

Il primo fattore – a parere di chi scrive, molto più del militarismo di Reagan o del carisma di papa Wojtyla – è stato anche quello determinante nel provocare il crollo del sistema sovietico, che, se era ancora in grado di competere concentrando ogni sforzo in progetti industriali fortemente centralizzati, non lo era più se si trattava di utilizzare tecnologie che presupponevano un’enorme capacità di scambio di informazioni fra gli individui.

E anche il trionfo geopolitico dell’Occidente contribuì a occultare e a rinviare ilredde rationem: fino a teorizzare la fine della Storia.

Tanto valeva ridurre ormai la politica a scontro fra caratteri personali, spesso fra caratteristi. Questo rimbambinimento veniva spacciato per modernizzazione. Le qualità richieste per vincere le elezioni avevano sempre meno a che fare con quelle richieste per governare. Quello italiano è stato soltanto un caso estremo, oltre i limiti del grottesco e del patetico, di una tendenza che ha colpito, in misura molto diversa, tutti i Paesi occidentali.

Sono state probabilmente le scelte politiche ed economiche dissennate del primo presidente non eletto (nel suo primo mandato) degli Stati Uniti (Bush junior) a provocare, letteralmente, lo scoppio della bolla, preparato da trent’anni di smantellamento dei controlli, dei limiti, dei checks and balances sulle attività economiche e finanziarie. La sovraestensione degli impegni militari, l’indebitamento pubblico e privato sempre più sfrenati, la rovina della reputazione occidentale e l’annientamento del soft power provocati dall’avventura irachena hanno messo a nudo una debolezza che aveva cause profonde.

È stato l’aumento crescente delle disuguaglianze, avrebbe probabilmente sentenziato Keynes, la causa di fondo della crisi, che è stata ed è soprattutto una crisi della domanda: non si può produrre per consumatori che non possono comprare; e, se ciononostante pochi ricevono redditi molto alti, non li investiranno dove il mercato non tira, ma cercheranno impieghi più remunerativi altrove, innescando una competizione per l’offerta di speculazioni finanziarie sempre più rischiose. Deregulation dei mercati finanziari adiuvando, alla fine è scoppiata la bolla, e con la bolla la crisi.

Non occorre certo essere culturalmente orientati a sinistra – ammesso che le parole della politica degli ultimi due secoli abbiano ancora un senso – per vedere che sarebbe necessario un nuovo paradigma, probabilmente molto simile a quello solo parzialmente realizzato a Bretton Woods alla fine della seconda guerra mondiale, per ripartire di lì.

Ma dove sono i leader politici democratici capaci oggi di promuovere mutamenti politici di fondo, di cambiare paradigmi consolidati?

In molti Paesi veri partiti politici non esistono neppure più, e per essere eletti bisogna essere soprattutto «piacioni». Un dibattito politico serio è molto difficile, anche perché, se le nuove tecnologie hanno posto nelle mani dei cittadini strumenti di comunicazione potentissimi, si sono nel frattempo azzerate le culture politiche diffuse. Oggi perfino le classi dirigenti sono per lo più prive degli strumenti cognitivi necessari a orientarsi nelle scelte politiche di fondo. E non ne sono consapevoli, perché i media e la politica fanno di tutto per convincerli, in genere con successo, che l’«infotainment» che ricevono sia più che sufficiente per consentire loro di orientarsi. Il fenomeno è generale, e coinvolge la grande maggioranza della società civile, dai più integrati e conservatori ai più indignati e contestatori. La scuola non educa alla cittadinanza, non fornisce nozioni di educazione civica, di economia, di diritto. Ma anche nei ceti privilegiati l’ignoranza politica dilaga ormai senza freni: proprio ai più brillanti studenti delle nostre università vengono in genere proposti percorsi di formazione precocemente iperspecialistici, che li lasciano molto spesso privi delle nozioni di base un tempo scontate, almeno per le classi dirigenti.

Oggi non sono solo le casalinghe svantaggiate vittime di Emilio Fede ad essere private degli strumenti per compiere criticamente le proprie scelte: i giovani medici, ingegneri, avvocati escono spesso dai loro percorsi di formazione iperspecialistici altrettanto privi delle nozioni di base che un tempo venivano fornite dai licei. È ben difficile, in queste condizioni, proporre nuove strategie, epocali cambi di paradigma.

E se non c’è – se non in nicchie irraggiungibili dal largo pubblico – dibattito politico che non sia infotainment, se la partita si gioca sui caratteri e sulle personalità, se la personalizzazione dà libero spazio alle campagne negative e diffamatorie, se quindi la prima qualità richiesta a un aspirante uomo politico è di non preoccuparsi troppo della propria reputazione, non c’è da stupirsi che i leader democratici dell’Occidente in crisi siano quasi tutti dei miseri followers, in perenne balia dei sondaggi d’opinione e di continue scadenze elettorali nazionali, regionali e locali. Sono questi poveri followers che dovrebbero promuovere i necessari mutamenti di paradigma?

Non c’è neppure da stupirsi che dalla società civile, giovani compresi, vengano fuori, soprattutto, grida di dolore, ostensione dei sintomi. Quasi tutte le proposte che vanno per la maggiore sono però rimedi peggiori del male, che denunciano la mancata conoscenza delle origini storiche dei mali o degli istituti che accusano. Non solo quelle dei populismi di destra, che spingono all’estremo l’imbarbarimento con cui una buona parte della classe politica europea, e italiana soprattutto, ha irresponsabilmente giocato e continua a giocare in questi anni. Anche da «sinistra» si sentono frequenti attacchi – che durano del resto dai tempi dei referendum sulle riforme dei trattati – contro l’intera costruzione europea, quando è solo attraverso un governo europeo che potremmo essere in grado di avere voce negli affari economici e politici del mondo; o si sentono sproloqui sull’introduzione del «mandato imperativo», che denunciano l’assoluta ignoranza della storia della rappresentanza politica, e che, se venissero accolti, renderebbero impossibile il government by discussion e ogni mediazione della politica, fino alla «stasi» – nell’originario significato greco di guerra civile.

In questo scenario internazionale ed europeo poco incoraggiante, assistiamo sempre più attoniti all’epilogo della desolante tragicommedia italiana iniziata nel 1994. E ancora una volta, come novant’anni fa, l’Italia sembra fare da battistrada verso il peggio. Forse ormai perfino i suoi più ciechi sostenitori stanno finalmente capendo, ma al prezzo di ritrovarci sull’orlo dell’abisso, con chi hanno avuto a che fare.

Ma il discredito accumulato dal berlusconismo, e da chi non si è opposto come avrebbe dovuto alla catastrofe civile, ma vi ha partecipato, può avere nuove nefaste conseguenze.

Sacrosante le polemiche contro la «casta» quando riguardano i tanti casi di saccheggio e di illecito, la politica occulta, o i micragnosi privilegi feudali, le grottesche manifestazioni di avidità e le boriose esibizioni di arroganza di cui danno prova così tanti esponenti della politica italiana. Ma, inavvertitamente, quelle polemiche tendono a slittare verso una messa in discussione della democrazia, considerata un «costo», a richiederne da più e diverse parti, come novant’anni fa, un restringimento. In perfetta sintonia con le esternazioni del Berlusconi di qualche anno fa, che pensava di risolvere i problemi azzerando il Parlamento.

Felice Mill Colorni

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