Corridoi umanitari in Afghanistan, da testimonianza a politica - Confronti
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Corridoi umanitari in Afghanistan, da testimonianza a politica

by Maurizio Ambrosini

di Maurizio Ambrosini. Professore di Sociologia delle migrazioni. Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche, Università di Milano.

In una di quelle svolte repentine che la storia di tanto in tanto imprime alle vicende umane, siamo obbligati a misurarci con le conseguenze della storica sconfitta occidentale in Afghanistan, un evento che peserà nei decenni a venire sugli equilibri geopolitici.

L’unico fronte su cui oggi i governi dei Paesi sviluppati possono cercare di recuperare un minimo di credibilità, agli occhi delle proprie opinioni pubbliche come del resto del mondo, riguarda l’accoglienza delle vittime, delle illusioni che hanno seminato e della loro drammatica smentita. Si apre uno spiraglio nei muri delle fortezze transatlantiche: muri fisici, mentali, burocratici, che hanno rinserrato i confini nazionali nei confronti delle popolazioni povere del mondo.

Le emozioni contano, in politica come nella vita quotidiana, soprattutto in tempi di informazione pervasiva, globalizzata e istantanea. In questo momento, forse breve, le emozioni soffiano nella direzione del dovere di accogliere: accogliere prima di tutto chi ha collaborato con le potenze occidentali durante i vent’anni di sciagurata avventura militare in Afghanistan.

Ma la discussione si sta allargando anche alla categoria ancora indistinta dei cittadini a rischio di persecuzione: chi ha lavorato per le Ong, per esempio. Poi gli attivisti locali per i diritti umani, gli operatori dell’informazione, specie se donne, i protagonisti della scena culturale e artistica, i funzionari governativi, i leader delle minoranze interne.

Presto dovremo forse, purtroppo, aggiungerne altri, come le docenti e le studentesse delle università afghane.

Va ricordato che fino al precipitare degli eventi nel mese di agosto, di- versi governi europei (Germania, Danimarca, Belgio, Paesi Bassi, Grecia e Austria) avevano colpito con decreti di espulsione centinaia di profughi afghani che erano riusciti a raggiungere il loro territorio, e fa- cevano pressione sull’Ue per ottenere l’autorizzazione a espellerli. Dipingevano l’Afghanistan come un “Paese sicuro”, in cui i rimpatriati non avrebbero corso pericoli.

Anche sul confine bosniaco, tra l’umanità dolente e perseguitata che cerca un varco verso l’Ue affrontando le violenze delle varie polizie di frontiera, si contano centinaia, forse migliaia, di afghani in cerca di asilo. I primi afghani da accogliere sono questi: i respinti dalle nostre norme, i malmenati dalle nostre Forze dell’or- dine, i confinati dalle nostre politiche in qualche luogo di passaggio.

Anticipando la propensione occidentale, e soprattutto europea, a trattenere i rifugiati nei Paesi di transito, il presidente turco Erdoan e quello pakistano Arif Alvi hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui si dichiarano indisponibili ad accoglie- re nuovi flussi di profughi afghani. L’esternalizzazione delle frontiere e degli obblighi di accoglienza questa volta sarà meno agevole, ma chi rischia di pagarne le spese sono proprio le persone bisognose di protezione.

Nel sussulto della coscienza politica occidentale, un termine tuttavia si sta facendo strada: Corridoi umanitari. È un termine che ci è familiare, essendo stato introdotto nell’agenda delle politiche dell’asilo da soggetti sociali legati alle Chiese cristiane, protestanti e cattoliche. Quella che poteva apparire una mera azione di testimonianza sta diventando un esempio di politica virtuosa da applicare su scala più ampia: una politica che consente arrivi sicuri, accoglienza diffusa, collaborazione tra istituzioni pubbliche e solidarietà volontaria.

Aprire le porte infatti è cruciale, ma non basta. L’accoglienza è una misura complessa, per cui servono sì risorse economiche, ma anche società locali ricettive, reti di solidarietà che coinvolgono i cittadini, capacità di mediazione e accompagnamento. L’esperienza dei corridoi umanitari cominciata con l’intesa del dicembre 2015, e poi con i primi arrivi dal Libano l’anno seguente, potrà fare da battistrada a una nuova stagione di solidarietà internazionale.

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Maurizio Ambrosini

Professore di Sociologia delle migrazioni. Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche, Università di Milano

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