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Scelta di fine vita

by redazione

di Antonio Fantoni

Qual è il problema biologico sotteso alla scelta della persona responsabile di mantenersi in vita o di porre termine alla sua vita? Cosa lo differenzia a questo riguardo da tutti gli altri animali?

Sono stato invitato dalla Comunità di S.Paolo a partecipare ad un dibattito pubblico sulla scelta di fine vita. Ho cercato di dare il mio contributo come genetista, ma anche come cittadino. La tesi di questo mio scritto è appunto che la conoscenza della biologia della fine vita (morte?) aggiunge razionalità oggettiva alla liceità di questa decisione personale.

L’uomo, fra tutti gli altri esseri viventi, è l’unico ad avere la facoltà individuale di scegliere di porre fine alla sua vita. Sono noti comportamenti istintivi che portano popolazioni di alcune specie a suicidi di massa, in condizioni ambientali particolari. Sono comportamenti definiti, pur senza alcuna connotazione etica, come “altruistici”, e sono dettati dalla necessità di evitare l’estinzione della specie attenuando la competizione per la sopravvivenza. Non si tratta di scelta cosciente, né di comportamenti individuali e quindi non è di questo che stiamo parlando.

Pochi temi hanno turbato e plasmato i comportamenti umani come questo. Il tema della vita e della morte è strettamente legati alla costituente biologica di fondo comune a molti organismi superiori, fra cui ovviamente l’uomo. Appartiene a tutti gli organismi complessi l’istinto positivo primordiale della sopravvivenza come necessità di partecipare alla propagazione della specie. Ve n’è un altro negativo, egualmente radicato nei comportamenti geneticamente determinati, che si configura come aggressione di altri organismi della propria stessa specie, fino alla loro soppressione, per assicurare la prevalenza esclusiva dei propri geni nelle generazioni successive. In aggiunta, e ancora dopo duemila secoli di evoluzione culturale e sessanta secoli di storia della cultura umana, su questo tema già permeato intimamente di pulsioni emotive, si sono stratificate teologie, ideologie e strutture politiche, tali da rendere quasi impossibile un dibattito sereno e scevro da pregiudizi.

Per inquadrare in termini scientifici il tema enunciato, bisogna rispondere inizialmente a quattro domande. (a) cos’è un organismo vivente, (b) quali processi biologici lo portano alla morte, (c) quali processi evolutivi hanno portato Homo sapiens ad acquisire la capacità di percepire la morte e infine (d) in che modo il processo biologico dell’evoluzione culturale, proprio di Homo sapiens, gli ha conferito la capacità di scegliere di terminare la sua vita.

Cercherò di farlo in termini forzatamente essenziali, data la brevità di questo scritto, ma anche con parole e argomentazioni comprensibili al lettore estraneo al campo e tali da comunicargli nuove curiosità assieme al desiderio di elaborare sue idee autonome al riguardo. E’ infatti mio desiderio di fornire ai lettori strumenti perché possano essi stessi rielaborare e arricchire il dibattito con contributi diversificati e utili al formarsi di un coscienza comune. Tutto questo perché cresca il numero di persone che contribuisce all’evoluzione della cultura della scelta responsabile di fine vita.

Affrontiamo per prima la definizione di “vita”. Una prima cellula, scampolo di vita, si è organizzata sul pianeta terra circa trentasette milioni di secoli fa. Prima ancora, per altri dieci milioni di secoli, molecole organiche avevano cominciato a interagire fra loro obbedendo alle leggi della chimica e della fisica, fino a formare casualmente catene di acidi nucleici (RNA, DNA), capaci di replicarsi spontaneamente. L’ambiente del pianeta era allora, ben più che ora, testimone di cambiamenti continui e brutali. Qe quel primo abbozzo di vita sarebbe stato presto distrutto se non fosse stato fin da allora capace di riprodursi e di mutare, sperimentando, a ogni suo cambiamento verso un nuovo organismo, la sua capacità di sopravvivere e continuare a proliferare anche negli ambienti più estremi. Gli esseri viventi sono macchine per fare prole, in forza della selezione riproduttiva

Oggi siamo qui a discettare di vita e non vita perché da allora gli organismi viventi sono stati capaci di mutare casualmente, adattarsi ad ambienti sempre diversi e riprodursi. Ridotta all’osso e nei suoi termini essenziali, la definizione di “vita” è quindi quella di una forma di organizzazione chimico-fisica capace di riprodursi autonomamente, cui bisogna aggiungere, per completezza, il necessario corollario della capacità di modificarsi continuamente per adattarsi a ogni ambiente e sopravvivervi.

Negli organismi più complessi, come i mammiferi superiori e l’uomo, questa organizzazione si configura come centinaia di miliardi di cellule tutte fra loro diverse e capaci di funzioni differenziate, queste ultime rese possibili da almeno 450.000 proteine prodotte da 22.000 geni. Se reputiamo presumibile che i primi semplici organismi formati da una sola cellula siano simili per ambienti di vita e per complessità ai batteri “estremofili” ancora oggi presenti e vivi nelle solfatare acide di Pozzuoli a 90°C, la complessità organizzativa è aumentata di almeno mille volte.

La realtà della vita comporta quindi necessariamente il meccanismo evolutivo. In tutti questi milioni di secoli si sono succedute generazioni in numero incalcolabile, per ognuna delle quali si sono verificate mutazioni genetiche spontanee e casuali capaci di rendere i nuovi organismi adatti a riprodursi con maggiore o con peggiore efficacia nell’ambiente di vita. Ovviamente nel primo caso quella nuova forma di vita avrà prole più numerosa e prevarrà nelle generazioni successive, mentre la seconda soccomberà. Si sono così originate ed estinte miliardi di specie diverse. Gli esseri viventi sono quindi macchine per fare prole, in forza della selezione riproduttiva. E’ anche vero che la vita di qualsiasi essere vivente in ambiente naturale è necessaria ad apportare all’evoluzione biologica un’informazione genetica diversa da tutte le altre, collaborando attivamente al mantenimento e alla crescita della biosfera. Per questo la variabilità biologica è un elemento essenziale della vita e deve essere mantenuta in ambienti sempre diversi nel tempo e nei luoghi del pianeta.

La complessità raggiunta, dalle prime cellule fino all’uomo, non si configura come l’eccellenza adattativa, perché anche i batteri estremofili immersi nelle solfatare di Pozzuoli sono perfettamente adattati al loro ambiente (noi vi morremmo!). E’ vero invece che la complessità dell’uomo permette alla nostra specie di riprodursi praticamente in tutti gli ambienti della Terra. Questo risultato si è ottenuto anche grazie a duemila secoli di evoluzione culturale, di cui si tratta più avanti.

Proviamo adesso a spiegare perché la vita si spegne, cioè perché, in termini meno eleganti, prima o poi ci tocca la morte. Un motivo stringente e molto generale di morte riguarda il secondo principio della termodinamica per cui l’entropia, intesa come disordine molecolare, aumenta sempre, danneggiando necessariamente il sistema organismo, basato su un ordine molecolare altamente strutturato. Inoltre e sempre in una dimensione molto generale, la morte ha una giustificazione evolutiva nell’esigenza del succedersi delle generazioni, perché i nuovi organismi figli dimostrino la loro maggiore o minore capacità adattativa nell’ambiente cambiato. Gli ambienti cambiano inesorabilmente e gli anziani disadatti sono rottamati [ma solo quelli disadatti!]. In situazioni ambientali selvatiche, non protette, gli animali perdono, con l’età, assieme alla capacità di vincere la competizione riproduttiva, anche quella di sopravvivere.

A queste giustificazioni poco escatologiche, se ne aggiunge una altrettanto prosaica, ancora una volta concretamente legata alle leggi della chimica e della fisica. Tutti gli organismi viventi muoiono quando diventano eccessivi i danni fisici e chimici, arrecati alle molecole della vita (DNA e proteine), e accumulati progressivamente nel tempo. Tutti gli organismi, anche quelli antichi e semplici, come i batteri, sono dotati di processi di riparazione che provvedono a fronteggiare questi danni. Ciononostante questi diventano evidenti con il procedere dell’età perché si accumulano anche i danni ai meccanismi di difesa.

Primariamente si tratta degli stessi meccanismi che producono le mutazioni genetiche apportate ai gameti (uova e spermatozoi) e previste nel processo evolutivo. Quando queste mutazioni casuali colpiscono i geni responsabili del controllo della proliferazione cellulare si verificano tumori, quando riguardano i geni che producono anticorpi si sviluppano malattie autoimmuni e in entrambi i casi danno malattie degenerative del sistema nervoso. Si tratta anche del processo di ossidazione delle proteine, non dissimile da quello che riduce il ferro in ruggine, in un ambiente cellulare necessariamente permeato da processi ossidativi. Quand’anche la medicina riuscisse, come già accade, a prevenire e curare molte patologie dell’anziano, i grandi vecchi perdono necessariamente la vita quando gli organi menomati nel loro insieme riducono fortemente la capacità di supplire l’uno alle mancanze dell’altro. Quando ciascuno di noi, diversamente giovani, invoca quella che viene chiamata la “morte degli dei”, pensa proprio ad addormentarsi sereno la sera e non ritrovarsi sveglio al mattino, pur in assenza di una vera e unica patologia determinante.

Dopo aver trattato in modo forzatamente schematico i significati biologici della vita e della morte, proviamo a capire come la specie umana abbia acquisito gli strumenti per comprenderne il significato. Abbiamo visto sopra come nel mondo animale la morte interviene quando l’età porta gli organismi ad essere incapaci sia di fronteggiare la competizione per la riproduzione e per l’alimentazione e sia di respingere l’attacco dei predatori, che siano virus, batteri, parassiti o carnivori.  Per Homo sapiens questo accadeva con altrettanta necessità fino a circa 10.000 anni or sono, ma poi l’evoluzione culturale ha aggiunto, come vedremo, un altro processo riproduttivo, quello appunto della cultura e con esso la medicina che ha procrastinato la morte.

Homo sapiens è nato in Africa circa 200.000 anni or sono. Prima di allora, attraverso un lungo processo durato almeno 4 milioni di anni e lungo un milione di generazioni, i suoi predecessori Ardipitecus, Australopitecus, Homo erectus, Homo abilis e un’altra decina di specie tutte progressivamente diverse dai cugini scimpanzé e oggi tutte estinte, avevano abbandonato la foresta equatoriale e avevano cominciato a cercare nella savana ambienti di vita più variati e stimolanti. Attraverso una serie di cambiamenti adattativi, tutti dovuti all’evoluzione biologica, si sono allungati gli arti inferiori, accorciati quelli superiori, rese abili le dita delle mani, acquisita la deambulazione eretta, aumentata la porzione posteriore e cerebrale del cranio a scapito a quella anteriore masticatoria,  persa la coda e la pelliccia, acquisita la fonazione e, soprattutto, aumentata di 20 volte la superficie delle circonvoluzioni cerebrali particolarmente a carico dei lobi frontali e parietali, sedi dei processi verbali, decisionali e della memoria. Progressivamente e parallelamente all’acquisizione di funzioni cerebrali che sarebbe troppo lungo qui discutere, dalle altre strutture prodotte dell’evoluzione biologica sono derivate funzioni, non meno biologiche, a supporto dell’evoluzione culturale.

Si tratta essenzialmente dell’abilità manuale nel forgiare nuovi strumenti, della comunicazione verbale articolata sintatticamente, della formazione e organizzazione di concetti astratti remoti dagli oggetti concreti, della capacità di apprendere dalla comprensione e memorizzazione di discorsi ascoltati, dell’allungamento della crescita pre-riproduttiva. Da queste funzioni primarie sono derivate a loro volta le capacità di difesa dai rigori ambientali (abitazioni, vestiario), la guarigione dalle patologie infettive e degenerative (medicina), assieme alla relativa stabilità della coppia per l’educazione della prole, l’organizzazione di aggregati abitativi in collettività rette da patti sociali e infine l’utilizzazione di altre specie viventi a finalità alimentari e di lavoro (agricoltura e allevamento). Sei mila anni fa è emersa la memoria storica e culturale documentata nella scrittura.

L’evoluzione biologica ha quindi dato a Homo sapiens strumenti intellettivi particolari e con questi la capacità di percorrere un cammino collettivo di evoluzione culturale. Nessun’altra specie ne è capace. Ogni organismo umano è una macchina per fare cultura, poiché partecipa alla cultura collettiva di H.sapiens e alla sua evoluzione. Quindi, oltre a contribuire variabilità genetica all’evoluzione biologica, ogni persona partecipa all’evoluzione culturale apportandovi variabilità scientifica, artistica, concettuale, politica, di modo di essere laico e religioso, e lo fa in quanto è capace di elaborare idee autonome e di comunicarle. Per partecipare sono sufficienti il desiderio di pensare, le parole per formulare i propri pensieri e l’empatia per ascoltare ed essere ascoltati. L’uomo è “persona” nella tradizione del teatro classico, cioè una maschera dalla bocca larga fatta per comunicare alla cavea del teatro le parole raccolte da intelligenza, emozioni e spirito (nell’accezione laica) prodotte dall’organo cervello.

Ho spiegato come la morte spenga la vita degli animali non umani che hanno perso la capacità di vincere la competizione riproduttive biologica e , immediatamente dopo, in ambienti selvatici e difficili, perdono la capacità di sopravvivere. Nelle parole che seguono cerco invece di spiegare come questa morte non colpisca Homo sapiens, protetto a lungo dai vantaggi della cultura, fino a che perde anche la capacità riproduttiva culturale, cioè la capacità di elaborare, comunicare e confrontare idee e affetti.

L’evoluzione culturale si basa nella sua essenza su cinque processi, (a) la formulazione di idee talvolta apparentemente nuove, ma in sostanza sempre modifiche più o meno estese di idee precedenti (b) la loro comunicazione orizzontale ai contemporanei anche attraverso l’affettività e le arti (c) il confronto fra diverse idee comunicate, con il prevalere di una fra esse o con la composizione fra alcune di esse. A questo processo consegue la memorizzazione, un tempo solamente mentale, oggi prevalentemente in forma strumentale, sia su carta che in formato digitale. Da questo deriva (d) il formarsi di un patrimonio culturale esteso, dal semplice ambito famigliare, a quello della comunità linguistica fino a raggiungere i confini scolarizzati della specie umana. Il patrimonio culturale così stabilizzato è l’oggetto di comunicazione verticale alle generazioni successive, cioè forma (e) il contenuto e i modi del processo educativo. La formazione del patrimonio culturale condiviso e il suo trasferimento alle generazioni successive formano la base della “riproduzione culturale”.

E’ pertanto chiaro come la comparsa graduale di ciascuna delle qualità biologiche e culturali riportate sopra si sia evidenziata come vantaggio adattativo, non diversamente da quelle unicamente biologiche. Come per l’evoluzione biologica, anche l’evoluzione culturale si avvantaggia enormemente dalla variabilità degli apporti colturali e dal loro numero, nella certezza che i problemi affrontati, che siano ambientali, sociali, tecnologici, scientifici o speculativi, trovano una soluzione tanto migliore quanto è maggiore il numero di diverse voci che vi collaborano. Da questa situazione oggettiva si origina quella che ho sopra definito come “riproduzione culturale” e con questa il vantaggio oggettivo di mantenere attivo il numero più alto possibile di persone attive e procrastinare la morte, dall’età post-riproduzione biologica, propria di tutti gli animali, a quella post-riproduttiva culturale, propria dell’uomo.

Alla pulsione genetica e istintuale per la riproduzione generazionale, si è quindi aggiunta nella specie umana la pulsione per la riproduzione culturale non meno biologica, ma motivata da particolari abilità mentali. Da trenta secoli la filosofia e la letteratura, fra cui la stessa Bibbia, testimoniano il bisogno, ben radicato nell’uomo, di partecipare la cultura condivisa ai contemporanei e alle generazioni future. La riproduzione culturale è una facoltà non limitata alla valenza fisica dei giovani, ma è dovuta ad attività mentali che si affinano con l’esperienza degli anni e permangono, in alcune persone, fino a tarda età.

Si è così arrivati a discutere quali implicazioni proprie dell’evoluzione culturale abbiano portato alla possibilità di scegliere la continuazione o il termine della vita.

Homo sapiens nel corso del processo evolutivo si è dotato di funzioni cerebrali, quali la coscienza di sé, la conoscenza del suo passato, la percezione del futuro. Quest’ultima facoltà comporta in conseguenza l’esercizio della speranza e la capacità di programmare e modificare la storia personale e collettiva proiettata nei giorni e negli anni che verranno. Mentre nella coscienza del futuro individuale si pone la certezza della propria morte biologica, dalla possibilità di modificare il decorso del futuro nasce l’opzione individuale di mantenersi in vita o di porvi termine.

Da come la vita si è originata ed evoluta in completa autonomia sulla terra, obbedendo alle sole leggi della fisica, della chimica e della genetica e da come l’uomo ha acquisito progressivamente, senza soluzioni nette di continuità, le particolari facoltà che lo rendono protagonista dell’evoluzione culturale, consegue che la vita appartiene, sia al suo inizio che al suo termine, agli esseri viventi e fra questi, pur nella sua peculiarità, all’uomo. A meno di opzioni religiose che condizionano queste scelte e  che, come tali, devono essere rispettate, non vi è nulla nelle conoscenze scientifiche sulla vita umana che ne condizionino la acquisizione e la terminazione, se non le leggi del patto sociale che impongono di non arrecare danno alla vita di altri, anche per non diminuire il numero di persone che contribuiscono all’evolvere della cultura.

Esistono condizioni che alterano o rimuovono completamente le capacità mentali e le funzioni culturali discusse sopra, spogliando un organismo umano di quelle qualità proprie di Homo sapiens che lo rendono diverso dagli altri animali. Queste situazioni spaziano dalla semplice percezione di non avere più forze per vivere né desiderio di comunicare con i propri cari, frequente in persone molto anziane, a condizioni patologiche come una semplice malattia mentale, per se reversibile, a un tumore terminale i cui dolori ottenebrano la coscienza di sé del paziente, fino a un danno neurologico grave che annulla permanentemente lo stato di coscienza, la sensibilità riflessa e la motilità. In quest’ultimo caso la situazione clinica di oggettiva assenza di vita e del suo impossibile recupero viene verificata da esami clinici inoppugnabili. La giurisprudenza di molti paesi civili sancisce l’obbligo di cessare un’assistenza costosa quanto inutile prestata a un semplice ammasso di cellule, non differente da una coltura in provetta.

In molti altri casi è la coscienza individuale di ogni donna e uomo, risultato anch’essa dell’evoluzione culturale di Homo sapiens e della storia personale di ognuno, a saper valutare se permangono le capacità d’ideazione, di comunicazione, di empatia e di speranza nel proprio futuro, che gli permettono di desiderare di continuare a vivere sentendosi persona nella sua accezione completa.

In alternativa una persona potrebbe ritenere di avere motivi validi per sentire il proprio stato irreversibile di dolore fisico o psichico come invalidante per la sua capacità culturale, pur ridotta che sia, e pertanto tale da vedere la propria speranza solo nella cessazione della vita.

La disperazione per l’impossibilità giuridica di essere accompagnato a una morte rispettosa della propria umanità può seriamente aggravare uno stato di depressione anch’esso irrimediabile e portare al dramma del suicidio, straziante negli ultimi istanti di vita per una personalità già sofferente oltre il sopportabile, e foriero di traumi e colpe per coloro che gli sono stati vicini.

All’inizio della storia scritta della cultura, venticinque secoli or sono, Socrate, cittadino di Atene, grande pensatore e uomo di rigore etico, è stato posto dallo Stato di fronte alla scelta fra perdere la sua vita o invece mantenerla, ma alla condizione di rinunciare a costruire e riprodurre cultura tramite il libero confronto con gli altri Ateniesi. Essendo, di fatto, già morto come uomo perché privato di quella verità possibile che si raggiunge nella comunicazione e nel confronto, avrebbe potuto sopravvivere come organismo, ma ha scelto di bere la cicuta e darsi la morte per mano dello Stato. Essendo stato privato della sua vita di persona, il suo organismo animale non aveva motivo per continuare a vivere. Cinque secoli più tardi Gesù ha fatto la stessa scelta e ha continuato a portare la sua verità agli Ebrei ben sapendo che questo lo avrebbe portato a una morte ignominiosa e atroce.

Sedici secoli dopo, lo scienziato pisano era nella stessa condizione e ha scelto di scampare la morte biologica. Ha pensato di riuscire comunque a vivere la sua vita di uomo continuando a scrivere di nascosto. Il suo contributo  ad un nuovo indirizzo al pensiero scientifico c’è stato, ma è sicuramente orfano di un valore più universale.

Quattro secoli più tardi, Primo Levi, nel suo libro di altissimo valore etico, “Se questo è in uomo” si è posto la domanda fondamentale se un organismo umano, al puro stato di sopravvivenza e privato di tutte le dignità della persona, abbia le caratteristiche di “uomo” nella pienezza del suo valore intrinseco.

Le loro dignità di persone tracciano ancora oggi il cammino dell’evoluzione culturale.

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