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Senza imprevisti

di Stefano Allievi

di Stefano Allievi. Sociologo e islamologo. Professore di Sociologia presso l’Università degli studi di Padova.

 

Siamo sempre più abituati a pensare che gli imprevisti siano qualcosa da poter eliminare nell’economia delle nostre vite, sempre più organizzate e prive di vuoti. Ma come sarebbe il mondo se…

Lo vorremmo così, il mondo: senza imprevisti. E così lo stiamo costruendo. Siamo talmente abituati che tutti i meccanismi debbano funzionare e siano ben oliati, che non appena c’è una disfunzione ci arrabbiamo oltre il logico. Vero, i treni dovrebbero arrivare in orario. E a fronte delle nostre ferrovie in precarie condizioni, citiamo volentieri come esempio a contrario, da cui trarre ispirazione, il Giappone capace di scusarsi se un proprio treno è partito per sbaglio 40 secondi in anticipo. Ma questo non spiega l’ondata di indignazione verbale, di improperi lanciati, di telefonate e post e tweet e foto con cui inondiamo amici e parenti e social media della nostra purissima rabbia senza contenimento e senza mediazioni quando capita a noi, il fatidico ritardo – e magari per motivi serissimi: perché uno sconosciuto si è buttato sotto il treno, o una bufera improvvisa ha provocato una frana sulla massicciata.

Eppure le cose che funzionano, gli orari rispettati al minuto, sono un’acquisizione recente. Proviamo a pensare a che cos’era un viaggio per i nostri nonni, o ai tempi del grand tour nell’Italia del Romanticismo, per non parlare dei pellegrinaggi medievali: quando si sapeva quando si partiva (all’ingrosso, perché poi la preparazione durava mesi e le variabili da incastrare erano molte), ma non quando e nemmeno veramente se si sarebbe tornati, e comunque l’ordine di grandezza della variabilità era, se non quello degli anni, quello dei mesi e delle settimane. L’esempio del treno in ritardo ci è utile per riflettere su un tema più generale: non siamo più capaci di sopportare gli imprevisti, le disfunzioni, gli inceppamenti. Nonostante l’obiettivo aumento di soluzioni potenziali che la tecnica ci mette a disposizione, non riusciamo più a reggere – innanzitutto psicologicamente – i problemi, e di confrontarci con essi. Siamo abituati a un mondo ordinato, scandito: senza pause, senza variazioni.

Inseriamo i nostri impegni, le nostre attività, i nostri progetti in una rigorosa sequenza di avvenimenti che immaginiamo precisa, completamente riempita, senza vuoti.

Solo l’evento eccezionale – la catastrofe sopraggiunta (l’improvvisa violenza della natura, l’incidente stradale o sul lavoro) – è capace di farci capire la forza di questo meccanismo che ci imprigiona: nell’ordinario, non lo percepiamo più. Tanto che a ricordarcelo ci pensa solo tutto ciò che riguarda il futuribile (dalle distopie della fantascienza agli orizzonti aperti dalle tecnologie più avanzate), o le vite tragiche degli altri. I migranti, per esempio: quelli sì che sanno ancora cosa significano gli imprevisti del viaggio, la loro potenziale tragicità. E proprio gli altri, gli esclusi, i marginali, le “vite di scarto”, talvolta i devianti – e in positivo alcuni happy fews – sono i soli che incarnano ancora la vita come destino, come rischio, come lotteria in cui si può vincere o perdere tutto: per un colpo improvviso di sfortuna o un bacio inaspettato della fortuna. Il fatto che anche ordinariamente la vita sia fatta di queste svolte o possa esserlo, che tendiamo a escludere dal nostro orizzonte quotidiano, ce lo ricordano, appunto, gli imprevisti. 

Loro, come anche i piccoli e grandi interstizi della vita: i momenti e i luoghi che ne interrompono la linearità in cui ci proteggiamo, i vuoti, i buchi tra un impegno e l’altro, le attese prima di un appuntamento, le code allo sportello, la noia delle vacanze senza attività organizzate, il tempo gratuito, non impegnato in niente, il silenzio. Perché questi momenti sono altrettante occasioni di contatto improvviso con l’alterità (l’immensità della natura o il nostro io profondo), potenzialmente prodromici di svolte e cambiamenti: nascono così le intuizioni artistiche, le illuminazioni religiose, le invenzioni, e anche gli innamoramenti, che di questi momenti e luoghi di vuoto hanno bisogno e di cui si nutrono. È l’ansia da prestazione, la smania di perfezionismo, che ci spinge a occupare tutto il tempo, tutto lo spazio, tutti i sensi contemporaneamente: e a non accettare interruzioni.

Ma la perfezione è una causa persa in partenza. L’utilità degli imprevisti sta nel ricordarcelo. Per questo una società senza imprevisti (come si profila, o come la vorremmo) non costituisce un sogno: ma un incubo.

[Pubblicato su Confronti 01/2019]

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