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Le sfide della società post-secolare

by redazione

intervista a Kristina Stoeckl. Ricercatrice e professoressa presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Innsbruck.

[intervista a cura di Asia Leofreddi]

 

Le ricerche di Kristina Stoeckl si concentrano sulla sociologia della religione, con attenzione ai rapporti tra religione e politica. Ha studiato in particolare il contesto russo e le posizioni della Chiesa ortodossa russa nel più ampio contesto del dibattito sui diritti umani. Da coordinatrice scientifica del progetto Postsecular Conflicts, sempre presso l’università di Innsbruck, ha analizzato le reti transnazionali e l’agenda di attori religiosi tradizionalisti come quelli del World Congress of Families.

Dal 29 al 31 marzo 2019 si terrà a Verona il World Congress of Families (Wcf ), che lei sta studiando da diverso tempo. Di cosa si tratta?
Il Wcf è un’organizzazione non governativa che mette insieme associazioni di vari paesi europei e del mondo. Fu ideata nel 1995 a Mosca da un americano e da un russo, oggi la sua sede principale è a Washington negli Stati Uniti. Il Wcf organizza congressi sul tema della famiglia ogni anno in una città diversa, il prossimo si terrà a Verona.

L’obiettivo è quello di promuovere un modello di famiglia tradizionale, patriarcale, costruita sull’unità matrimoniale tra uomo e donna opponendosi allo stesso tempo all’aborto, alla maternità surrogata, ai matrimoni omosessuali e ad ogni altra misura egualitaria negli ambiti delle politiche legate alla famiglia, alla sessualità e all’identità di genere.

Inoltre il Wcf è una Ong accreditata alle Nazioni Unite dove ha un ruolo nel più ampio contesto del dibattito sui diritti umani.

Da quali paesi provengono le associazioni, le organizzazioni e i movimenti che ne fanno parte?
Nonostante il Wcf trovi le sue origini nella destra cristiana americana, a vent’anni dalla sua fondazione è diventato un’organizzazione con molti partner in numerosi paesi. All’interno del Wcf vi sono partner provenienti da paesi dell’ex Unione Sovietica, dell’Europa orientale e di quella centrale come, per esempio, la Russia, la Georgia, la Moldavia e l’Ungheria. In questi paesi, la battaglia ideologica  del Wcf va al di là della mera promozione dei valori tradizionali della famiglia. La questione riguarda più che altro dove orientare il proprio modello politico e sociale, se verso Occidente (l’Unione europea) o verso Oriente (la Russia di Vladimir Putin). Nel mondo ideologico del Wcf, il primo viene descritto come contrario alla famiglia, anti religioso, individualista e libertario; il secondo, invece, viene elogiato come il vero rappresentante dei valori tradizionali, della religiosità ortodossa e di una visione politica sovranista e comunitaria. Tuttavia, la particolarità di quest’organizzazione è quella di riuscire a identificare i propri partner sia nei paesi occidentali, sia in quelli orientali. Conservatori religiosi di tutte le confessioni sono i benvenuti. Tra i vari partner, per esempio, c’è l’associazione italiana Pro Vita la quale, attiva nel Wcf da tanti anni, è anche tra le promotrici del congresso veronese di marzo.

Una sorta di “ecumenismo conservatore”?
Vi sono state molte polemiche sull’opportunità o meno di definirlo tale. Molti teologi ritengono che non lo sia, in quanto non è finalizzato a quell’unità della Chiesa a cui lavora il dialogo ecumenico ufficiale. Anzi, il discorso portato avanti dal movimento ecumenico classico è visto da questi attori come troppo progressista e liberale.

A mio avviso, invece, l’agenda tradizionalista pro famiglia del Wcf, mettendo insieme cristiani provenienti da diverse denominazioni, può benissimo essere un esempio di quell’ “ecumenismo conservatore” descritto dal teologo russo Andrey Shishkov.

Un ecumenismo che ricalca molto quello americano degli anni ottanta, il quale creò delle forme di cooperazione cristiana interconfessionale che non avevano come obiettivo l’unità della Chiesa, ma la condivisione di posizioni ideologiche conservatrici, il cosiddetto “ecumenismo di trincea”. La cosa interessante è che, a differenza degli Stati Uniti, per molti paesi in cui il Wcf opera, queste alleanze sono valide solamente a livello transnazionale, mentre a livello locale continuano a prevalere delle forme di anti ecumenismo intransigente. Così per esempio in Russia, a livello nazionale è passata da poco una legge che vieta ai mormoni di essere attivi sul territorio, nonostante nel contesto transnazionale del Wcf ortodossi russi e mormoni vadano più che d’accordo.

Lei guarda al Wcf come ad un fenomeno della società post-secolare. Cosa intende con questo termine?
Mi riferisco a quella corrente filosofica del liberalismo politico rappresentata da John Rawls e Jürgen Habermas.

La loro idea era che il secolarismo come ideologia politica non fosse parte integrante del liberalismo e che, se così concepito, fosse discriminatorio nei confronti dei cittadini religiosi. Secondo questa visione, infatti, tutti i cittadini (religiosi e non) dovrebbero per principio essere liberi di entrare nel dibattito pubblico a partire dalle loro convinzioni religiose, politiche, morali e filosofiche.

L’importante è che siano pronti a deliberare sulle norme di una società in modo ragionevole e nella prospettiva di un consenso valido per tutti. In particolare mi sento vicina all’idea di post-secolarità illustrata da Habermas nel suo discorso Ragione e Fede del 2001. In quell’occasione Habermas sostenne che il contributo delle persone religiose a questo dibattito non fosse solo obbligato, per rispettare i principi liberali di reciprocità e uguaglianza, ma anche cruciale per preservare una società dai propri errori etici. Con il concetto di società post-secolare Habermas intende fornire una “ricetta” per affrontare le questioni sia del rapporto tra democrazia e pluralismo, sia sulla forma che in una società dovrebbe assumere il dibattito politico e democratico.

Quando utilizzo il concetto di post-secolarismo mi riferisco dunque a una società caratterizzata da un pluralismo profondo, che necessita di un confronto pubblico in cui gli argomenti religiosi siano sullo stesso piano di quelli laici. Un confronto nel quale non solo i cittadini religiosi siano obbligati a tradurre le loro istanze nel linguaggio non religioso, ma anche quelli non religiosi sappiano mediare le loro aspirazioni laiche.

Il problema è che, nonostante l’ottimismo di Habermas sulla realizzabilità di questo dibattito, il confronto post-secolare non sta portando a un maggiore consenso democratico ma sta generando più conflitto, costringendo a ripensare alcuni presupposti della teoria politicoliberale.

Ma perché il modello democratico liberale fa fatica a prevedere i conflitti legati alla postsecolarità?
Credo che l’ottimismo di Habermas è dipeso dall’aver sottovalutato il modo in cui nella società post-secolare le idee religiose diventano concetti politici. Habermas si è sempre confrontato con interlocutori illuminati come Joseph Ratzinger
(prima che diventasse Benedetto XVI) o professori universitari di teologia. In effetti, in Germania, considerando la Chiesa protestante tedesca e la Chiesa cattolica, questa fiducia di Habermas nel potere della deliberazione si può comprendere molto bene. Nella sfera pubblica le voci religiose sono prevalentemente quelle delle gerarchie ecclesiastiche, le quali sono informate da una base molto larga di società religiosa e da una teologia accademica capace di tradurre le proprie istanze, rendendole accettabili in un contesto politico. Se Habermas avesse guardato ad altri fenomeni sarebbe sicuramente stato meno fiducioso.

Cosa intende?
Oggi il protagonismo politico delle Chiese istituzionali e delle loro gerarchie nella sfera pubblica sta per essere sostituito da una società civile religiosa che diventa un attore politico sempre più importante. Ong, associazioni, organizzazioni religiose liberali o tradizionaliste hanno iniziato ad organizzarsi e a polarizzarsi su temi comuni, seguendo il modello delle culture war americane. 

Che cos’è una “culture war”?
È un concetto che, già a partire dagli anni ottanta, fu utilizzato per descrivere gli Stati Uniti. Si riferisce alla presenza di un maggior confronto tra gruppi religiosi i quali si definiscono non più in base a presupposti confessionali ma ideologici, dividendosi secondo tendenze conservatrici o progressiste. Mi pare che oggi, in Europa, ci si stia avvicinando a questo modello.

Si può osservare, infatti, come la globalizzazione delle culture war americane abbia portato ad un riallineamento dei blocchi geopolitici del passato sotto nuove bandiere ideologiche, con la Russia “a destra” come leader delle agende politiche incentrate sul sovranismo e sulla propaganda dei valori tradizionali e l’Unione Europea “a sinistra” come promotrice di un’interpretazione egualitaria dei diritti umani e della sovranazionalità delle istituzioni politiche.

In questo contesto, io mi concentro in particolare sulla parte più conservatrice della società civile religiosa europea. All’interno di essa si sono sviluppate forme di cooperazione interconfessionale tra gruppi di cristiani conservatori, come quelle del Wcf, che si uniscono contro nemici comuni: il liberalismo, il secolarismo, il femminismo ecc. La mobilitazione di questi grassroots [movimento di base o politico creatosi in modo autonomo all’interno di una comunità, ndr] religiosi tradizionalisti sta iniziando a diventare sempre più rilevante e mette in discussione sia gli stessi vertici ecclesiastici, sia compromessi storicamente raggiunti tra le Chiese e gli Stati. Ha iniziato inoltre ad avere un peso sempre maggiore nelle arene internazionali e influenza i temi delle politiche locali.

Quando la società civile religiosa tradizionalista ha iniziato ad organizzarsi in modo transnazionale e ad acquisire così grande importanza nella sfera pubblica globale?
Questo fenomeno è stato una reazione a quella che i movimenti religiosi definiscono una “liberalizzazione” dei diritti umani. Durante la guerra fredda, infatti, i diritti dell’uomo servivano soprattutto a proteggere l’individuo dallo Stato, il quale non doveva discriminarlo, torturarlo, ecc. Dagli anni Novanta in poi, momento in cui sono nate molte delle organizzazioni internazionali conservatrici di cui io mi occupo, i diritti dell’uomo iniziarono a subire una serie d’interventi legislativi che, mettendo l’accento sui diritti dell’individuo in quanto tale, ne cambiarono in parte la lettura. Nel 1994 e nel 1995 ci furono le due conferenze dell’Onu al Cairo e a Pechino durante le quali ci si iniziò a concentrare su ambiti che prima erano esclusi dal dibattito sui diritti umani, come quelli delle donne, dei bambini, degli omosessuali. La famiglia, menzionata nell’articolo 16 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, non venne direttamente messa in discussione, ma i nuovi dibattiti, occupandosi non più della sua unità ma dei singoli individui che la componevano, iniziarono a modificarne i poteri e gli equilibri al suo interno. Questi interventi non piacquero né agli attori religiosi né agli Stati che avevano un’agenda più conservatrice. Il Vaticano fu uno dei primi oppositori ed esortò in particolare alcune Ong cristiane americane ad ingaggiare una battaglia nel campo dei diritti umani. Si promosse un’interpretazione naturale e tradizionale della famiglia contro gli approcci legati alle rivendicazioni di identità di genere. Non a caso il Wcf ha il suo inizio proprio in questi anni.

Sta dicendo che gli eventi degli anni Novanta hanno fatto emergere una “nuova” categoria di attori religiosi?
Invece che nuovi li definirei attori religiosi su cui non si è riflettuto abbastanza, con importanti conseguenze anche sul piano politico. Per Rawls e Habermas affinché i cittadini religiosi potessero partecipare al dibattito pubblico, dovevano presentare i propri argomenti in modo razionale e “modernizzare” i propri sentimenti religiosi per rispondere alle sfide poste dal pluralismo, dalla scienza, dalla legge positiva e dalla moralità secolare. Su queste basi il liberalismo ha sempre implicitamente pensato a due tipi di attori religiosi: i “liberali”, capaci di rendere le proprie visioni compatibili con i principi del liberalismo politico, e i “fondamentalisti”, profondamente anti moderni, ritirati dalla società e spesso in aperto contrasto sia con le gerarchie ecclesiastiche sia con quelle politiche.

Esiste invece una terza categoria, quella che io definisco dei “tradizionalisti”, di cui alcune delle organizzazioni formatesi negli anni novanta sono un esempio. I tradizionalisti, nonostante abbiano delle caratteristiche ideologiche in comune con i fondamentalisti, vi si differenziano per la loro diversa strategia di interagire con la sfera pubblica.

Perché? In che modo lo fanno?
I tradizionalisti sono capaci di tradurre le loro istanze, spesso fortemente illiberali, nel linguaggio laico della sfera pubblica. Come il Wcf dimostra, nonostante le loro argomentazioni siano spesso simili a quelle di alcuni attori religiosi fondamentalisti, essi non utilizzano un linguaggio religioso per portarle nel dibattito pubblico, ma le traducono in quello secolare dei diritti umani o della legge naturale. Parlano di aborto come di diritto alla vita e rigettano il matrimonio omosessuale perché “innaturale”. A livello locale utilizzano strumenti democratici come mobilitazioni o referendum. A livello internazionale creano alleanze transnazionali. Questo è un dato importante in quanto gruppi tradizionalisti, prima in minoranza, grazie a queste alleanze oggi possono aumentare la loro visibilità e il loro potere di intervenire nei contesti politici nazionali. Non a caso i promotori della mozione anti aborto di Verona dello scorso ottobre hanno numerosi collegamenti con la rete transnazionale del Wcf e sono gli stessi che stanno organizzando anche il congresso di marzo.

In che modo si possono gestire i conflitti che, secondo lei, sono connaturati a una società democratica e pluralista?
Innanzitutto è necessario ripensare la democrazia liberale in senso più pragmatico. Il modello di società post-secolare pensato da Habermas resta ancora valido ma purtroppo ne siamo ancora lontani. Da un punto di vista etico, logico e democratico siamo ormai convinti che tutti i cittadini debbano partecipare al dibattito pubblico, tuttavia non siamo
in grado controllare i conflitti che questo confronto può generare. Per costruire una sfera pubblica in grado di accogliere argomenti differenti, è necessario ripensare il modello liberal-democratico aggiungendo all’idea liberale di consenso quella di conflitto. Quest’ultimo, se ben gestito, potrebbe anche aiutare a trovare soluzioni migliori.

Il problema, però, è che siamo di fronte a partiti populisti di destra e di sinistra che, invece di pensare a strategie politiche e legislative in grado di gestire il confronto tra posizioni diverse, cavalcano questi conflitti. I partiti che spingono per una realizzazione integralista delle proprie posizioni non fanno altro che aumentare la polarizzazione sociale e questo è pericoloso.

[pubblicato su Confronti 01/2019]

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