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Libera, veramente

by Vincenzo Vita

di Vincenzo Vita. giornalista

A larga maggioranza il consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha approvato nei giorni scorsi le Linee guida per la riforma della professione, ancora ferma alla legge del ’63: molto più di un secolo fa, in termini mediatici. Maggiore apertura nell’accesso, qualificazione culturale e forte impegno deontologico ma fuori dalle vecchie gabbie, cambio del nome: ordine del giornalismo. È un passo importante, utile a intervenire (o per lo meno a demistificare) la campagna ossessiva contro chi opera nell’informazione. E di ossessione ormai si tratta, e neppure magnifica.
È un fenomeno generale. Se il dato fornito da “Ossigeno informazione” sull’Italia è inquietante, con 3.660 giornalisti minacciati dal 2006 ad oggi, allargare lo sguardo fa paura. Alcuni casi particolarmente emblematici della violenza: Jan Kuciak, ucciso in Slovacchia per le sue inchieste sulle frodi fiscali; Daphne Caruana Galizia, vittima di un attentato a Malta per le indagini sulla corruzione; Jamal Khashoggi, torturato e giustiziato nella sede dell’ambasciata dell’Arabia Saudita a Istanbul. Sono solo alcuni dei casi, purtroppo sempre più numerosi, in cui l’odio verso la libertà di espressione arriva al punto estremo. Tuttavia, accanto agli episodi a così efferato grado di criminalità, vi è uno stillicidio di attacchi, ritorsioni, querele temerarie, minacce di ogni tipo. Sul versante politico, diversamente pericoloso, si susseguono grida e diktat, con le sembianze di Orban, di Erdogan, ma pure di Trump e di Putin. E poi la muraglia cinese. L’elenco è lungo. Ma ciò che colpisce è la contraddizione tra le opportunità della società della comunicazione con la connessa molteplicità delle piattaforme diffusive, e l’altra faccia – censoria, repressiva, autoritaria – dell’infosfera. Come mai simile discrasia?

Non è un caso, probabilmente. Quella che Colin Crouch (2013) e Pierre Rosanvallon (2012) hanno nominato post-democrazia è la violazione dell’antico principio della divisione dei poteri. Informazione e conoscenza sono ingombranti. L’accentramento dirigistico ha bisogno di saltare i corpi intermedi e di sollecitare una relazione diretta tra la leadership e il popolo-folla.

In tale tragitto non serve l’intelligenza collettiva, bensì – al massimo – una edulcorata versione “connettiva”. La rete, peraltro dominata dai grandi oligarchi dei dati (da Google a Facebook), diviene la suggestiva sostituzione della circolazione dei saperi.
Se la televisione generalista classica da tempo slitta in basso nella fruizione pur con percentuali contenute (-2,3% nell’ultimo anno, secondo il 15° rapporto del Censis sui media), il crollo vero e proprio riguarda libri e giornali. Nel 2018 nemmeno il 42% degli italiani dichiara di aver letto almeno un libro, mentre solo il 37,4% ha sfogliato un quotidiano (Censis). Caduta non compensata dal relativo incremento delle edizioni online (26,3%). La tendenza tocca numerosi paesi, a cominciare dagli Stati Uniti: a Manhattan non si vede un’edicola ed acquistare i newspaper è un’impresa complessa. Proprio dal New York Times e dal Washington Post sono venute analisi predittive assai crude: la versione stampata dei giornali è destinata a soccombere, divenendo via via un prodotto per nicchie abbienti di lettori in grado di sopportare un elevato prezzo di copertina.

In Italia, il trend complessivo è appesantito dalla minaccia reiterata del governo “gialloverde” di eliminare entro il 2020 il Fondo per il pluralismo e l’innovazione, che garantisce la sopravvivenza di testate (vedi il manifesto o Avvenire, ad esempio) lontane dai grandi gruppi del settore; o dall’invito alle aziende pubbliche a non fare inserzioni pubblicitarie.

E già, la critica o persino l’elogio troppo misurato non piacciono. Così come sono sgraditi i professionisti, quasi sempre ormai precari, di un sistema di cui sembra volersi accentuare la crisi. Invece di costruire progetti di riqualificazione e rilancio, come fu fatto in Francia con gli “Stati generali dell’editoria” da cui scaturirono misure concrete.
Insomma, la difesa attiva dell’articolo 21 della Costituzione torna ad essere un elemento chiave contro la deriva in corso e, insieme, la premessa per un programma alternativo.

[pubblicato su Confronti 11/2018]

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