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Il sale della Terra

by redazione

(intervista a) Eugenio Bernardini. Pastore valdese, moderatore della Tavola valdese (Unione delle chiese metodiste e valdesi.

[intervista a cura di Claudio Paravati]

Lei è entrato nell’ultimo anno del suo mandato da moderatore della Tavola valdese. Se dovesse fare un bilancio, in che stato di salute trova l’Unione delle chiese metodiste e valdesi?
Soffriamo una fragilità a livello locale. Una fragilità numerica: in alcune località è divenuto difficile mantenere la presenza di una comunità e avere un ricambio delle persone impegnate. Ravviso anche una fragilità spirituale, che dipende dai numeri ma non solo. Dall’altra parte bisogna dire che non ci manca la progettualità in senso più ampio, non ci mancano le buone idee, la testimonianza e la predicazione.

Godiamo di un forte riconoscimento da parte dell’opinione pubblica italiana (vedi il consenso tramite l’otto per mille, ma anche i tanti inviti che riceviamo dalle parrocchie cattoliche, dal mondo ecumenico, dai rappresentanti di altre religioni) come anche, e forse ancora di più, dall’ecumene internazionale.

Questo gap tra progettualità in grande e fragilità locale è la nostra preoccupazione maggiore in questo momento. Quando parlo di fragilità locale non mi riferisco naturalmente a tutte le situazioni.

La decrescita dei membri di chiesa è un dato comune a tutte le chiese e a molte istituzioni religiose in Europa. Per quel che vi riguarda non c’è timore che che si decresca fino a scomparire?
Dato che la Chiesa è fatta dalla somma delle realtà locali di certo in qualche situazione, dove la decrescita numerica è maggiore, la possibilità di scomparire non è solo una paura ma una realtà già accaduta. Soprattutto ciò accade nelle zone colpite dalla nuova emigrazione italiana. I giovani del sud e delle periferie del nostro paese sono tornati a partire come negli anni Sessanta, per studiare, per cercare lavoro, in Italia e ancor di più all’estero. Ci deve preoccupare però non solo l’essere pochi, ma che in certe situazioni siamo davvero “poco”: come investimento personale nel servizio cristiano, come testimonianza. È calata, più che nei numeri, la volontà e la fiducia di poter trovare persone che accolgano la proposta evangelica.

Ci sono a suo giudizio altre cause quali l’ateismo, la secolarizzazione? O la proposta delle Chiese metodiste e valdesi è debole? O infine lo spirito del nostro tempo è semplicemente fatto così, e ci si deve rassegnare?
Io per natura non mi rassegno, e mi fa molto male quando vedo rassegnazione. Mi capita di dire spesso: non siamo ancora morti! E se siamo ancora vivi, abbiamo da fare fino all’ultimo il nostro dovere di testimoni dell’evangelo, altrimenti diamo le dimissioni e facciamo altro. La rassegnazione è essa stessa figlia della nostra fragilità, che è determinata anche dallo spirito del tempo; quest’ultimo penetra nelle Chiese e, per esempio, ci fa scegliere di fiore in fiore che cosa prendiamo, approviamo e scegliamo della Chiesa, rendendoci passivi, borbottanti invece che fedeli attivi e proponenti. E poi certo noi abbiamo delle carenze. Per esempio il dialogo intergenerazionale è una sofferenza di tutte le Chiese di antica radice occidentale, per noi è arrivato un punto di allarme.

Durante la sua moderatura (iniziata nel 2012), la Chiesa valdese ha sostenuto insieme a Sant’Egidio e la Federazione delle chiese evangeliche in Italia l’esperienza pionieristica dei “corridoi umanitari”. Perché un impegno così forte per i migranti da parte di una chiesa?
Non si sceglie il prossimo che il Signore ci mette davanti, e verso il quale si deve esercitare quell’amore di cui Gesù parla costantemente.

Non abbiamo scelto noi l’impegno verso le persone migranti; sono queste ultime che si sono imposte al nostro servizio, alla nostra diaconia. Senza dimenticare però quello che comunque abbiamo continuato a fare per tutte le persone fragili perché malate, perché anziane, perché deboli psicologicamente, in povertà. Persone di nascita italiana. Ciò che facciamo per chi migra appare a volte con preponderanza perché nel nostro paese su questo tema c’è una grande attenzione, anche mediatica, un interesse, una criticità, una discussione accesa.

Con questo progetto ecumenico abbiamo dato risposta oltre un anno dopo che si verificò il fatto che colpì la coscienza nazionale, quel 3 ottobre 2013 che vide il naufragio e la morte di più di 370 persone al largo di Lampedusa. Abbiamo dato risposta a un bisogno urgente, e questo è tipico della diaconia e del servizio cristiano non sceglie il prossimo da aiutare, ma risponde a chi ha bisogno.

Dopo tanti anni il dibattito in Italia sul tema resta acceso e vede contrapporsi opinioni diametralmente opposte per quel che riguarda accoglienza, integrazione etc. Come commenta le vicende della nave Diciotti di quest’estate?
C’è una brutalità utilitaristica della politica nella gestione del dramma delle migrazioni che ha evidentemente altri scopi quali l’allargamento della base del consenso. Le scelte che si stanno compiendo nei fatti e nei propositi stanno causando morti, tragedie, sofferenze e soprattutto non stanno dando una risposta di sistema, e neppure l’aiuto concreto che è necessario dare quando ci sono delle emergenze. Per usare una metafora  non stiamo dando il pesce da mangiare, ma neppure stiamo aiutando a costruire le canne da pesca per pescare. È una situazione drammatica per le popolazioni che hanno bisogno d’aiuto e per la coscienza dei cristiani d’Europa.

Il progetto dei corridoi umanitari è frutto di un accordo col Ministero degli Interni e del Ministero degli Esteri. Continueranno?
Sarebbe molto ragionevole per chi dice no all’immigrazione “selvaggia”, e che quindi chiude i porti, istituire canali umanitari governativi con cui consentire a un numero ben maggiore a quello che noi possiamo proporre col nostro progetto, di arrivare in porti sicuri e terre sicure a quelle popolazioni che fuggono da guerre e tragedie. Sarebbe opportuno comunque da parte della politica costruire relazioni con i Paesi da cui le persone scappano, e dare dei “sì” condizionati e non soltanto dei “no” a ogni tipo di proposta. Noi siamo nella seconda fase del nostro progetto, stiamo dunque continuando.

La Chiesa valdese ha sempre avuto un’idea di laicità dello Stato e di piena cittadinanza alla pluralità. Oggi l’Italia ha fatto passi in avanti dal suo punto di vista?
Direi che siamo molto indietro rispetto a ciò che si sarebbe potuto fare.

Nelle ultime legislature si è sempre aperto il dibattito su una legge quadro sulla libertà religiosa che desse una risposta positiva alla regolamentazione del diritto di culto e di coscienza, non soltanto per i cosiddetti nuovi cristiani che giungono in Italia, ma anche per le altre religioni presenti sul territorio, per chi crede diversamente e chi non crede. Non c’è mai stato un punto in cui ci siamo avvicinati davvero a una proposta risolutiva perché hanno vinto le paure, le preoccupazioni su riconoscimenti e aperture, e su questo sono un po’ pessimista. Questo è il segno di un deficit di diritti che comincia a palesarsi in vari campi. Mi auguro di sbagliare.

Quello che è certo è che noi continueremo col nostro impegno, nella consapevolezza che non cerchiamo solo i nostri spazi e la nostra libertà, ma quella di tutti.

A proposito di libertà e diritti, ci sono temi scottanti quali quelli bioetici, e in particolare tutto ciò che riguarda il fine vita, il testamento biologico, l’eutanasia. Come si fa a essere cristiani e avere posizioni d’apertura su questi temi?
Nell’ultimo secolo e mezzo il punto di equilibrio della teologia protestante è quello di affrontare queste tematiche non ideologicamente, ma tenendo conto dell’esistenza delle persone, della loro dignità, qualche volta scegliendo una soluzione col criterio del male minore; altre volte insistendo perché la capacità mediche e tecnologiche della società attuale vengano sfruttate fino in fondo (come le cure palliative). Sempre però riconoscendo che all’azione umana ci sono dei limiti; non tutti i dolori sono confortabili, e ci sono situazioni che vengono riconosciute dal soggetto come non più dignitose: allora in quel caso lì, perché condannare? Perché costringere ai viaggi in altri paesi dove pratiche di fine vita sono consentite dopo un attento esame caso per caso? Noi ci facciamo interrogare da tutto questo e sinora abbiamo dato delle risposte di apertura. Senza però generalizzazioni! Perché per noi nel campo etico non si può mai abbandonare la responsabilità e il giudizio personali. In Italia nel frattempo si sono fatti dei passi in avanti, per esempio con legge sulle cure palliative (2010), sino a quella sulle decisioni anticipate del fine vita (2018). Tanto è ancora da fare comunque: per esempio le cure palliative al nord sono più diffuse che al sud del Paese. È molto grave che in un Paese non ci siano gli stessi diritti per tutti.

Marco Marzano nel suo ultimo libro parla di “rivoluzione mancata” in riferimento al papato di Bergoglio. Qual è la sua opinione al riguardo?
Più che di rivoluzione io parlerei di cambiamento profondo, ma che ha delle priorità precise. Per me tali priorità sono, nella progettualità di papa Francesco, di essere una Chiesa più estroversa, attenta ai bisogni del mondo; meno gerarchica, meno chiusa nei suoi palazzi, più al servizio. Già questo progetto sta ricevendo molti contrasti. Credo che Bergoglio non abbia intenzione di aprire un contenzioso teologico, forse perché ritiene che il tempo non sia ancora maturo.

Concordo dunque nel dire che sul piano dottrinale, tranne alcune azioni pastorali – una maggiore apertura sull’intercomuninione, o alla pastorale dei divorziati – effettivamente c’è un’inerzia da parte della Chiesa cattolica, anche se non bisogna esasperarla. Il popolo ecumenico, composto tanto da laici quanto da religiosi, spera in interventi anche sul piano dottrinale, e credo che sia numericamente in aumento. Questo fa ben sperare.

Il dialogo con le altre chiese evangeliche?
È andato molto avanti negli ultimi anni sui temi della dottrina. Col mondo pentecostale invece siamo assolutamente fermi su due punti: l’interpretazione biblica, che è un tema centrale; e i temi etici sui quali ci dovrebbe essere apertura alla diversificazione, alla pluralità riconciliata. Lì le differenze sono radicali, e hanno impedito un approfondimento del dialogo a causa delle scelte delle nostre chiese, quali l’apertura del pastorato alle donne, e le nostre posizioni sui temi della sessualità e della famiglia. Mi pare di poter dire che oggi purtroppo siamo più distanti di vent’anni fa.

Che posizione ha la Chiesa valdese riguardo l’idea di Europa?
La Chiesa valdese è la chiesa cristiana di minoranza più antica in Italia, e al contempo da sempre ha vissuto l’Italia aspirando all’Europa. Ha vissuto sempre guardando al contesto europeo, fatto di solidarietà, interscambio teologico e di esperienze; di pastori e di personale ecclesiastico proveniente da chiese sorelle europee. Quando dopo le due guerre mondiali è divenuto concreto il sogno di un’unità europea giusta e pacifica, oserei dire anche generosa, non ha potuto che entusiasmarci. E quando in tempi recenti ci sono stati i passaggi più significativi e importanti dell’Unione europea, noi l’abbiamo vissuta come una logica conseguenza di quelle aspirazioni che sono sempre state nel nostro animo.

Continuiamo a sostenerle, perché il tema non è “Europa sì” o “Europa no”, ma “quale Europa?”. In un mondo in cui i problemi sono globali, le soluzioni non possono che essere altrettanto globali, e non c’è risposta più efficace di un’Europa unita, pacifica e giusta; che sappia svolgere il suo ruolo nel mondo, anche di responsabilità e, se si vuole, di difesa dei cittadini, dei valori, dei principi.

Si parla poco di una guerra, quella in Ucraina, che coinvolge da vicino l’Europa e una fetta importante di cristianesimo, quello ortodosso. Questo tema viene affrontato dalle chiese in Italia?
In generale nell’Europa del Sud non abbiamo la percezione di quanto sia una ferita per l’Europa il conflitto attuale in Ucraina. Questo conflitto è una ferita che fino ad adesso non si è riusciti a sanare.

Ma vorrei ricordare che c’è un altro conflitto, non militare, non nazionalistico, ma di valori, che in questo momento coinvolge le Chiese cristiane dell’Europa dell’est. In Polonia, in Repubblica Ceca, in Ungheria si pone alla coscienza di quelle chiese come affrontare politiche nazionalistiche, che oggi definiamo “sovranistiche”. È un doloroso ritorno di ciò che fu il peccato specifico dell’Europa, quel nazionalismo che ha provocato, lo ricordiamo, ben due guerre mondiali. Si pone un problema grave di come venga affrontata tale ideologia, che invece di portare pace produce divisioni e quindi conflitti. La vocazione delle chiese in Europa è una vocazione complessa in un continente che continua ad essere complesso.

Nel simbolo della chiesa valdese è ripreso il versetto del vangelo di Giovanni «Lux lucet in tenebris», la luce splende nelle tenebre; in quello della chiesa metodista il detto di John Wesley, «il mondo è la mia parrocchia». Che significato hanno oggi queste parole?
Sempre più attuale, perché il cristianesimo in Europa ormai si sta collocando come un cristianesimo di minoranza, per cui non soltanto per la nostra Chiesa – che ha da sempre l’esperienza di essere minoranza – , ma per tutto il cristianesimo è importante la parola di Gesù che conferisce l’identità alla chiesa chiamandola “sale della terra”, “luce del mondo”. Questa è l’autoconsapevolezza dei credenti di essere “nel mondo”, è il mondo l’orizzonte, la parrocchia, che noi dobbiamo avere nel nostro presente e soprattutto nel nostro futuro.

Non dobbiamo avere timore del nostro stato di minoranza perché le minoranze nella storia e nelle società hanno indicato le soluzioni che poi sono state di beneficio per tutti; in questo senso sono state il sale della terra, e la luce nel mondo. Credo che questo sia il nostro ruolo, che dobbiamo svolgere senza alcuna paura.

[Pubblicato su Confronti 10/2018]

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