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“Il mondo come prigione?”. Un convegno per passare dalla pena rabbiosa alla pena riflessiva

by redazione

di Alice Tinozzi

Il 19 aprile si è svolto a Roma il convegno “Il mondo come prigione?”, che ha affrontato il tema delle carceri analizzando in particolare la relazione tra le strutture penitenziarie e la società contemporanea. L’architettura delle strutture, studiata in modo tale che lo spazio interno assolva sia le questioni di detenzione sia quelle di relazione, è stato uno dei temi centrali affrontati nell’incontro. Attualmente, con quella che viene definita «pena rabbiosa», si ha solo un aumento della recidività dei condannati del 70% proprio a causa delle condizioni di detenzione che non ne permettono una reale riabilitazione.

Gli istituti di nuova generazione prevedono invece un comportamento attivo dei detenuti, i quali svolgono attività responsabilizzanti e riabilitative per affrontare la società al di fuori delle mura.

Su tale aspetto si sono concentrati Giancarlo Paba, della Fondazione Michelucci (punto di riferimento nello studio dell’habitat sociale e del rapporto fra spazio e società), e Marella Santangelo, del Dipartimento di architettura della Federico II di Napoli, che svolge progetti in collaborazione tra studenti e detenuti.

«Un direttore che pensa agli spazi e al benessere dei detenuti è semplicemente un direttore che rispetta la Costituzione», afferma Ornella Favero, direttrice di Ristretti orizzonti, spiegando che la bruttezza provoca danni enormi sulle persone: serve l’introduzione della «pena riflessiva» per creare un ambiente che rompa in modo decisivo la logica del conflitto. «Un carcere che fa sentire ultime le persone che hanno agito male è un carcere che ha fallito; […] se le facciamo sentire bestie, si possono solo incattivire».

Seguendo il discorso della Favero, il direttore dell’amministrazione penitenziaria Ettore Barletta spiega il bisogno di trasformare le carceri in «istituti di riabilitazione sociale». Soprattutto per i minori e per il dovere di dare a questi ragazzi, come suggerisce Lucia Castellano del Ministero della Giustizia, la possibilità di crescere e assumersi la responsabilità dei loro atti rapportandosi sia tra di loro sia con gli adulti (genitori, tutori o parenti).

«Si va in carcere perché si è puniti e non per essere puniti, […] è sottile il confine tra limitazione e privazione della libertà e dei diritti, e bisogna definirlo», sostiene Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato.

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