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A chi risponde la legge Minniti-Orlando?

by redazione

di Donato Di Sanzo (mediatore culturale e dottore di ricerca in Storia contemporanea presso l’Università di Salerno)

Migliorare la protezione internazionale e contrastare l’immigrazione illegale: questi gli obiettivi dichiarati dal provvedimento che porta il nome del ministro dell’Interno e di quello della Giustizia. Ma andiamo ad approfondire i punti toccati dalla legge e le critiche mosse da molte associazioni che si occupano del tema.

L’11 aprile scorso, la Camera dei Deputati, con 240 voti a favore, 176 contrari e 12 astensioni, ha approvato il decreto Minniti-Orlando, denominato “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale” e indirizzato a modificare radicalmente la disciplina del trattamento dei richiedenti asilo e dei rifugiati sul territorio italiano. Come era ampiamente prevedibile, l’approvazione del provvedimento, sul quale era stata posta la fiducia dal governo Gentiloni per l’automatica conversione in legge, è stata accolta con netta contrarietà da numerose organizzazioni del terzo settore e da un variegato mondo associativo, politico e sindacale, che hanno giudicato le novità introdotte come una risposta securitaria al problema complesso dell’arrivo in Italia di migliaia di migranti forzati.

In effetti, di fronte a un dibattito destinato a durare a lungo e a un fenomeno – quello del sempre più numeroso arrivo di richiedenti asilo – il cui destino è difficilmente prevedibile nel breve periodo, è quanto meno lecito domandarsi a quale disegno politico, a quale idea di solidarietà, risponda la legge che reca il nome del ministro dell’Interno Marco Minniti e del ministro della Giustizia Andrea Orlando. È doveroso chiedersi, ad esempio, se la cancellazione di un grado di giudizio (l’appello), per coloro che abbiano ricevuto un diniego contro la prima domanda di asilo esaminata dalle commissioni territoriali competenti, e l’istituzione di sezioni specializzate presso i tribunali ordinari con relativa abolizione del contraddittorio durante il processo, non rappresentino l’effettiva creazione di due giustizie parallele; è opportuno interrogarsi, ancora, sulla reale efficacia della riproposizione del modello dei centri per l’espulsione (ora denominati Cpr, Centri di permanenza per il rimpatrio), dimostratosi, in molti casi, fallimentare sotto il profilo della gestione e lesivo dei diritti umani; è necessario cercare di comprendere se e come le nuove disposizioni interverranno sulle modalità e sui tempi dell’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati.

Le conseguenze sul sistema giudiziario dell’entrata in vigore della legge sembrano in palese contrasto con il dettato costituzionale, come pure hanno fatto rilevare organizzazioni giuridiche che si occupano di immigrazione e diverse realtà del terzo settore. In particolare, di fronte a una giustizia valida per i richiedenti asilo e una per tutti gli altri, sembrano soccombere clamorosamente i principi del diritto a un giusto processo, del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio, contenuti in Costituzione e nella Convenzione europea sui diritti umani.

Non è dato sapere, poi, come funzioneranno esattamente i nuovi Centri di permanenza per il rimpatrio, che secondo la legge saranno istituiti in ogni regione arrivando a una capacità di accoglienza complessiva di 1.600 unità. Nello specifico, risulta ancora oscuro come luoghi di detenzione, dove in passato si sono verificate documentate violazioni dei diritti umani e che non sempre hanno garantito la effettiva realizzazione del procedimento di rimpatrio, possano essere riconvertiti in strutture funzionanti, in grado di facilitare il lavoro dei centri di prima e seconda accoglienza.

Ci si chiede, inoltre, quanto attendibili e sostenibili, soprattutto in termini di rispetto dei diritti del rimpatriato, possano essere i futuri accordi che il governo italiano ha promesso di sottoscrivere con i paesi di maggiore provenienza. Di fatto, a oggi, il patto siglato a Roma dal ministro Minniti con più di sessanta tribù del sud libico (che avrebbe dovuto, in maniera non proprio chiara, limitare i flussi registrati nel cosiddetto “imbuto” verso il Mediterraneo) sembra essere in profonda difficoltà di fronte all’inaffidabilità dei contraenti.

La legge Minniti-Orlando, infine, sembra non prevedere interventi significativi in grado di incidere sulla vera questione: l’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati in territorio italiano, che, oltretutto, genera quotidianamente polemiche e sciacallaggi politici e mediatici. Alla luce delle nuove disposizioni, infatti, non viene intaccato il cosiddetto sistema del “doppio binario”, che prevede le due accoglienze parallele dello Sprar ordinario – in cui si realizzano progetti territoriali sottoposti a costanti verifiche di validità in termini di funzionamento e di rendicontazione delle spese – e dei Centri di accoglienza straordinaria (Cas), dove il controllo delle effettive condizioni di sostenibilità delle accoglienze è più blando e meno stringente. A fronte di una situazione in cui la capienza del sistema ordinario è tre volte inferiore rispetto a quella dei Cas (25mila contro 75mila posti), ci si sarebbe aspettata, tra gli obiettivi della riforma, una maggiore incisività nel disporre la risistemazione dei sistemi di accoglienza verso un regime unico.

Alla luce di tutto ciò, risulta meno arduo cercare di capire a chi risponda la legge Minniti-Orlando sull’immigrazione. In un quadro europeo che presenta il lepenismo in grande ascesa e il securitarismo conservatore come uno dei principi guida delle forze della destra continentale, il Partito democratico e il governo Gentiloni in Italia hanno interpretato il proprio riformismo sull’immigrazione, uno dei temi più determinanti nell’agone politico, come la necessità di offrire risposte digeribili per la cosiddetta “pancia” del paese.

Lo schema prevede il richiamo a un solidarismo pubblico, che racconta di integrazione e tutela dei richiedenti asilo nella società italiana, e l’accostamento dell’immigrazione al tema, ben spendibile sul mercato elettorale, della sicurezza pubblica, nella più classica equazione del conservatorismo tanto in voga in Europa. L’obiettivo è, evidentemente, quello di competere (con un linguaggio diverso) con i professionisti della paura, che quotidianamente macinano consenso accarezzando il timore dell’immigrato e favorendo la competizione tra poveri in tempi di crisi.

Non è assolutamente un caso che il decreto Minniti-Orlando sia stato approvato dal Pd e dalle altre forze della maggioranza parlamentare, ma sia stato accolto con moderata soddisfazione anche dalla Lega Nord e da altre forze di destra. Sembra che il terreno dello scontro non sia più quello in cui si discutono le soluzioni migliori ai problemi, ma quello in cui si compete tra uomini e forze che cercano di governare, ognuno a proprio vantaggio, l’impatto sulla società della annosa questione dell’accoglienza dei migranti forzati in Italia. Il futuro e la prova del consenso, di qui a un anno, diranno se l’ossimoro del progressismo conservatore, di cui questa nuova legge è figlia, avrà ragione e si affermerà come tendenza maggioritaria.

(pubblicato su Confronti di maggio 2017)

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