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L’Italia delle religioni

by redazione

di Claudio Paravati

Oggi in Italia possiamo parlare di un «nuovo pluralismo religioso», dovuto in buona parte all’arrivo di comunità differenti, portatrici anche di religioni prima non presenti nel paese. Tra i molti dati del Dossier Statistico Immigrazione 2015, vi sono anche le nuove stime dell’appartenenza religiosa riguardo alla popolazione straniera. Classificare le persone secondo il credo non è un’operazione semplice e sarebbe sbagliato farlo «meccanicamente» sulla base del paese d’origine.

Che siano «ponti di Babele» invece che «torri», di pluralità è comunque necessario parlare oggi forse più che ieri, in un’Italia che faticosamente prende coscienza di essere terra di religioni, al plurale, e non solo di religione, una, santa e universale. Capita che, quando se ne accorga, subito dopo si faccia prendere dal timore di perdere la propria presunta «identità». O almeno c’è chi dice così: persino su importanti e diffuse testate nazionali c’è chi propone lo schema della reciprocità non solo per i diritti, tra cui quello di costruire i luoghi di culto, ma persino per il dialogo tra le religioni. L’argomentazione suona più o meno così: se non c’è dialogo «a casa loro», allora anche da noi in fondo non è necessario che ci sia. Ci sfugge qui, lo ammettiamo, la logica di fondo.

Sta di fatto che in Italia si può e si deve parlare di un «nuovo pluralismo religioso», perché dal dopoguerra in poi le migrazioni – tutte, non solo quelle via mare, ma anche quelle via terra interne all’Europa, o quelle dall’Asia, dal Sud America, dal Nord America etc. – hanno vissuto fasi molto diverse tra loro; e hanno portato in Italia comunità differenti con, a volte, anche religioni non storicamente presenti nel paese.

I «dati» sono strumento indispensabile per interpretare e, se possibile, comprendere tale situazione. In particolare per quanto riguarda l’appartenenza religiosa, il recupero degli stessi è operazione, lo si capirà, piuttosto ardua: come classificare le persone secondo il loro credo? Amici che da anni vivono e lavorano in Italia, non praticanti e talvolta non credenti, sono registrati come «musulmani» solo perché il paese d’origine è in maggioranza musulmano. È chiaro che la materia è complicata: il fatto religioso è questione personale, intima, e vive anche di contraddizioni, di sfumature, che per ovvi motivi la catalogazione non riesce sempre a «contare».

È altresì possibile, con un po’ di cautela elaborare un quadro complessivo soddisfacente, proponendo una «stima». Vediamo a tal proposito più da vicino gli ultimi dati in materia del Dossier Statistico Immigrazione 2015 che presenta le nuove stime dell’appartenenza religiosa in Italia, in riferimento alla popolazione straniera regolarmente residente alla fine del 2014.

Su un totale di 5.014.000 persone, i cristiani sono quasi 2,7 milioni, i musulmani 1,6 milioni, gli appartenenti a religioni orientali (induisti, buddhisti, sikh e altri) più di 330mila, gli ebrei 7mila; 55mila appartenenti ad aree in cui sono diffuse le religioni tradizionali, e 221mila gli atei e agnostici.

Partiamo dal confronto con l’anno precedente: rispetto al 2013 i cristiani registrano un +6% (dovuto a un incremento degli immigrati ortodossi), i musulmani un -9%, le religioni orientali +3%, mentre negli altri gruppi non si registrano consistenti variazioni. Questi pochi dati iniziali bastano a dimostrare quanto sia peregrina l’ipotesi di un’«invasione culturale e religiosa» in Italia (e in Europa). Emerge con chiarezza come più della metà degli immigrati siano cristiani (53,8%), tra cui evangelici-protestanti e ortodossi (per lo più dall’est Europa). Questi ultimi superano numericamente i cristiani cattolici (30,5% contro 18,3%), e il trend registra una sostanziale stasi, se non, nel caso dell’islam, di una diminuzione in termini percentuali rispetto all’anno precedente. I flussi migratori sono cosa complessa, e non facilmente leggibile se non tenendo presente gli assetti politici nazionali e internazionali: chi parla di invasione e generalizza provenienze territoriali e religioni getta un pericoloso fumo negli occhi.

La «torre» di Babele si pluralizza in «ponti di Babele» solo, ed è questa la condizione essenziale, se si parte dalla conoscenza della pluralità esistente oggi; persone che abitano le città e che frequentano scuole, università e che ricorrono alla sanità: una pluralità che ha fretta di essere riconosciuta (socialmente e talvolta ancora giuridicamente) per poter vivere pienamente la cittadinanza nel nostro paese; una pluralità, cosa da non dimenticare, costituita anche da generazioni nate e cresciute in Italia, e sinora parzialmente marginalizzate.

Una marginalizzazione che per quel che riguarda Chiese e religioni in Italia è ancora pesante per molte di esse. Vediamone un altro esempio: i testimoni di Geova (450mila persone) fino ad oggi non hanno visto ratificata la loro Intesa con lo Stato, dovendosi quindi ancora affidare giuridicamente alla Legge dei culti ammessi del 1929-30. Anzi, recentemente l’intesa con i Testimoni, a suo tempo già arrivata in Parlamento, è stata rimessa – per l’ennesima volta – in discussione per approfondire alcuni aspetti in materia sanitaria. Trattasi di un tira e molla che dura da vent’anni, segnale di quanto la materia sia complicata, ma anche di quanto la politica sia talvolta distante dai passi in avanti che la società civile è invece in grado di fare.

Se dunque il ritardo politico risulta preoccupante, non è da sottovalutare il grande impatto mediatico che la religione può avere per muovere i sentimenti e anche le paure della popolazione. Se prendessimo d’esempio l’anno appena trascorso, ci accorgeremmo come esso sia caratterizzato da una grande confusione mediatica, e da un’accesa polemica su questioni quali, per esempio, la costruzione di nuovi luoghi di culto (il caso della legge lombarda n.2/2015, sull’edizione di culto, impugnata dallo stesso governo).

La situazione in Italia rimane dunque «elitaria» per quel che riguarda le Chiese e le religioni, in una gerarchizzazione dei diritti che rallenta la crescita armonica della cittadinanza nel suo complesso: oltre la Chiesa cattolica romana (forte dei Patti Lateranensi), sono undici le confessioni che dispongono di un’Intesa con lo Stato ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione (valdesi e metodisti, avventisti, pentecostali delle Assemblee di Dio e della Chiesa apostolica, ebrei, battisti, luterani, ortodossi della Sacra Arcidiocesi ovvero «greci», mormoni, induisti e buddhisti); per tutte le altre Chiese o religioni i rapporti con lo Stato si strutturano secondo norme obsolete risalenti al periodo fascista, e non più aggiornate da allora. Sono circa 50 le confessioni che godono per lo meno di un «riconoscimento giuridico», mentre le altre operano come semplici associazioni. L’islam è un caso emblematico di questa situazione: a oggi l’unico soggetto riconosciuto come «ente religioso» rimane il Centro islamico culturale d’Italia, che gestisce la cosiddetta «grande moschea» di Roma, a fronte, come già ricordato, di 1,6 milioni di persone.

Il risultato di tale ritardo politico è la crescita di un «sommerso spirituale» che rimane inespresso nelle sue potenzialità positive. Un sommerso fatto di luoghi inappropriati per condurre la preghiera e per le celebrazioni; un sommerso fatto di confusione di ruoli di leadership religiosa, e di servizi resi ai cittadini; quei luoghi potrebbero essere potenzialmente risorse per la comunità e, come piace dire alla sociologia, luoghi di resilienza.

I dati mostrano un’Italia plurale ma non confusa; la realtà delle Chiese e delle comunità religiose appare come in grado anche di integrare dal basso, attraverso le loro stesse attività, che fungono da ponti con la comunità cittadina tutta. Emerge un insieme di buone pratiche, che vanno dai tavoli interreligiosi alle iniziative nei quartieri; dalle feste celebrate insieme agli impegni ecumenici per una legge quadro per la libertà religiosa in Italia. Tutto questo movimento ha bisogno oggi ancor di più di sostegno politico; affinché la «pluralità» divenga presto un dato acquisito, e si apra una vera nuova stagione politica e culturale in Italia e in Europa.

(pubblicato su Confronti di novembre 2015)

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