Se s’incontrano le due Rome. E la terza? - Confronti
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Se s’incontrano le due Rome. E la terza?

by redazione

di Luigi Sandri

Il viaggio di papa Francesco ad Ankara (incontro con Erdogan e con responsabili musulmani) e ad Istanbul, per rafforzare il dialogo con la Chiesa di Costantinopoli, è stato caratterizzato da gesti molto significativi. Ma il cammino con l’Ortodossia è arduo, date le permanenti tensioni tra il patriarca Bartolomeo I e Kirill di Mosca.

Il tempo aiuterà a meglio valutare le parole, i gesti, i segni, gli eventi dell’intenso viaggio di papa Francesco in Turchia (28-30 novembre) e, poi, gli echi di quanto avvenuto e le conseguenze che via via emergeranno. Qui, intanto, cerchiamo di fissare, in un polittico, i diversi quadri – geopolitico, ecumenico, interreligioso, intracattolico – che, pur distinti l’uno dall’altro, per certi aspetti sono inevitabilmente intrecciati nel puzzle turco.

Lo «status» delle religioni e confessioni minoritarie in Turchia

Accolto con tutti gli onori dovuti ad un capo di stato, Bergoglio ha iniziato il suo viaggio ad Ankara, rendendo omaggio al mausoleo di Atatürk, il fondatore della moderna Turchia. Accompagnato da due squadroni di militari a cavallo ha quindi raggiunto l’imponente Ak Saray, il Palazzo bianco – costosissimo, e perciò da molti criticato in Turchia – fatto costruire da Recep Tayyip Erdogan, leader del partito Giustizia e sviluppo (Akp), per dodici anni premier e, dall’agosto scorso, eletto dal popolo presidente della Repubblica [vedi Confronti 10/2014]. Poi, di fronte a lui e ad altre autorità, il papa ha pronunciato il suo primo discorso in terra anatolica, subito toccando un delicato problema «interno»: «È fondamentale che i cittadini musulmani, ebrei e cristiani – tanto nelle disposizioni di legge, quanto nella loro effettiva attuazione –, godano dei medesimi diritti e rispettino i medesimi doveri». Traduzione: lo status delle religioni e confessioni minoritarie in Turchia lascia molto a desiderare (la Chiesa cattolica, e non solo essa, non ha personalità giuridica).

Formalmente, la Turchia è rigidamente laica, seppure la stragrande maggioranza dei suoi 76 milioni di abitanti sia musulmana sunnita. Invece davvero minima, in proporzione, è la presenza cristiana nell’insieme. I greco-ortodossi, che, stante l’impero ottomano, all’inizio del Novecento erano ancora alcuni milioni, oggi non sono più di cinquemila. Gli armeni – gregoriani in maggioranza, cattolici in minoranza – sui centomila. Molte migliaia i siri ortodossi e i caldei. Difficili da quantificare, e da elencare, le comunità protestanti, alcune quasi underground: qualche migliaio di persone. I cattolici, circa cinquantamila, appartenenti a diversi riti – armeno, latino, siro, caldeo – fino a pochi anni fa sembravano in via di inesorabile diminuzione (perché rarissimi turchi si fanno cattolici); ma adesso, per ragioni «estrinseche», stanno invece aumentando: alcune migliaia dei profughi che, per sfuggire alla violenza, dalla Siria e dall’Iraq hanno raggiunto la Turchia, sono infatti cattolici, dei vari riti; ma, soprattutto, sono cattolici (latini) migliaia di asiatici sudorientali, principalmente filippini, e poi africani sub-sahariani che, per studio o per lavoro, vivono nel paese e sono legati alla loro Chiesa: e così il cattolicesimo nel paese ha una nuova linfa, un nuovo volto, e deve quasi ripensarsi.

Per quanto riguarda i greco-ortodossi, il loro centro è il Fanar, da secoli la residenza del patriarcato ecumenico di Costantinopoli. La questione di Cipro, negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, ebbe inevitabili riflessi sul patriarcato che, dal governo di Ankara, fu accusato di sostenere le aspirazioni dei greco-ciprioti, a discapito dei turchi-ciprioti. Per ritorsione, nel 1971 le autorità chiusero l’università di Halki (Heybeliada, in turco), un’isola del mar di Marmara dove veniva formato il clero ortodosso. Vani, finora, i ripetuti tentativi di risolvere la questione (vedi Confronti 10/2014). Vi è però da dire che, sotto Erdogan, alcuni contenziosi con gli ortodossi e con altri gruppi religiosi sono stati positivamente risolti e altri, si spera, potrebbero esserlo a breve.

Medio Oriente: violenze difficili da decifrare

L’altro, e ancor più complicato argomento, caldissimo per Ankara, toccato dal papa, riguardava il Medio Oriente: «La Turchia, per la sua storia, in ragione della sua posizione geografica e a motivo dell’importanza che riveste nella regione, ha una grande responsabilità: le sue scelte e il suo esempio possiedono una speciale valenza e possono essere di notevole aiuto nel favorire un incontro di civiltà e nell’individuare vie praticabili di pace e di autentico progresso… Il Medio Oriente è da troppi anni teatro di guerre fratricide, che sembrano nascere l’una dall’altra, come se l’unica risposta possibile alla guerra e alla violenza dovesse essere sempre nuova guerra e altra violenza. Per quanto tempo dovrà soffrire ancora il Medio Oriente a causa della mancanza di pace? Signor presidente, per raggiungere una meta tanto alta ed urgente, un contributo importante può venire dal dialogo interreligioso e interculturale, così da bandire ogni forma di fondamentalismo e di terrorismo, che umilia gravemente la dignità di tutti gli uomini e strumentalizza la religione. Occorre contrapporre al fanatismo e al fondamentalismo, alle fobie irrazionali che incoraggiano incomprensioni e discriminazioni, la solidarietà di tutti i credenti, che abbia come pilastri il rispetto della vita umana, della libertà religiosa, che è libertà del culto e libertà di vivere secondo l’etica religiosa, lo sforzo di garantire a tutti il necessario per una vita dignitosa, e la cura dell’ambiente naturale […]. In Siria e in Iraq, in particolar modo, la violenza terroristica non accenna a placarsi. Si registra la violazione delle più elementari leggi umanitarie nei confronti di prigionieri e di interi gruppi etnici; si sono verificate e ancora avvengono gravi persecuzioni ai danni di gruppi minoritari, specialmente – ma non solo –, i cristiani e gli yazidi».

Infine: «La Turchia, accogliendo generosamente una grande quantità di profughi [1,4 milioni, secondo stime Onu; 2 milioni, affermano invece fonti turche], è direttamente coinvolta dagli effetti di questa drammatica situazione ai suoi confini, e la comunità internazionale ha l’obbligo morale di aiutarla nel prendersi cura dei profughi. Insieme alla necessaria assistenza umanitaria, non si può rimanere indifferenti di fronte a ciò che ha provocato queste tragedie. Nel ribadire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto, sempre però nel rispetto del diritto internazionale, voglio anche ricordare che non si può affidare la risoluzione del problema alla sola risposta militare».

Francesco è rimasto sulle generali, mai citando il «califfato» dello «Stato islamico» (Isis); tutti, però, hanno inteso che si riferisse ad esso quando ha parlato di «fanatismo», «fondamentalismo», «terrorismo», e di «persecuzioni» contro cristiani e yazidi. E perciò Erdogan, pur dicendosi d’accordo con la «visione» espressa dal papa, ha voluto – per evidenti interessi politici – fare alcune puntualizzazioni: con riferimento al regime siriano guidato da Bashar al-Assad, ha detto che esiste anche il «terrorismo di Stato»; ha ricordato i bambini uccisi dall’attacco israeliano a Gaza, quest’estate. Ed ha accusato l’Occidente di «islamofobia».

Se un papa prega in moschea

Alla Diyanet, il Dipartimento per gli affari religiosi, il papa ha poi incontrato il presidente dell’organismo, Mehmet Görmez, la più alta autorità religiosa sunnita in Turchia. Francesco – ribadita la sua angoscia per le violenze compiute in particolare «da un gruppo estremista e fondamentalista» – ha sottolineato: «Veramente tragica è la situazione in Medio Oriente, specialmente in Iraq e Siria. Tutti soffrono le conseguenze dei conflitti e la situazione umanitaria è angosciante […]. In qualità di capi religiosi, abbiamo l’obbligo di denunciare tutte le violazioni della dignità e dei diritti umani. La violenza che cerca una giustificazione religiosa merita la più forte condanna, perché l’Onnipotente è Dio della vita e della pace […]. Noi, musulmani e cristiani, siamo depositari di inestimabili tesori spirituali, tra i quali riconosciamo elementi di comunanza, pur vissuti secondo le proprie tradizioni: l’adorazione di Dio misericordioso, il riferimento al patriarca Abramo, la preghiera, l’elemosina, il digiuno… elementi che, vissuti in maniera sincera, possono trasformare la vita e dare una base sicura alla dignità e alla fratellanza degli uomini. Riconoscere e sviluppare questa comunanza spirituale – attraverso il dialogo interreligioso – ci aiuta anche a promuovere e difendere nella società i valori morali, la pace e la libertà».

Questo appello ad una collaborazione islamo-cristiana per la pace il papa lo ha «incarnato» nel modo con cui poi, ad Istanbul, ha visitato la Sultanhamet, la «moschea blu» costruita dagli ottomani, quattro secoli fa, dirimpetto, a trecento metri, da Santa Sofia, la basilica giustinianea che i conquistatori di Costantinopoli nel 1453 trasformarono in moschea, e che Atatürk nel 1935 ri-trasformò in museo. I due opulenti monumenti rappresentano il meglio dell’arte bizantina e ottomana e, simbolicamente, quasi una sfida, architettonica e teologica, tra cristianesimo ed islam. Toltosi le scarpe, Francesco è entrato nella moschea e infine il Grand mufti lo ha guidato di fronte al mihrab, la nicchia che indica la direzione della Mecca. Qui l’ospitante ha pregato e il papa è rimasto – ha spiegato poi padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa vaticana – in «adorazione silenziosa». Ma lo stesso pontefice, incontrando i giornalisti, in aereo, nel viaggio di ritorno a Roma, ha qualificato assai diversamente il suo atteggiamento: «Il muftì mi spiegava bene le cose, con tanta mitezza, e anche con il Corano, dove si parlava di Maria e di Giovanni il Battista… In quel momento ho sentito il bisogno di pregare. E ho detto: “Preghiamo un po’?” – “Sì, sì”, ha detto lui. E io ho pregato: per la Turchia, per la pace, per il muftì… per tutti… per me, che ho bisogno… Ho pregato, davvero… E ho pregato per la pace, soprattutto. Ho detto: “Signore, finiamola con la guerra…”. Così, è stato un momento di preghiera sincera».

Il vescovo della «prima» Roma con quello della «seconda»

Quindi il papa ha visitato Santa Sofia; uscendo, sul libro d’onore del museo ha scritto: «Aghìa Sofìa tou Theou [Santa Sapienza di Dio]» e «Quam dilecta tabernacula tua Domine (Psalmus 83) [Quanto sono amabili le tue dimore, Signore]». A parte una messa celebrata per la comunità cattolica, che egli ha invitato a vivere una feconda diversità in una sostanziale unità, Francesco ha dedicato il pomeriggio di sabato 29 e la mattinata del 30 agli incontri, al Fanar, con Bartolomeo I, che la domenica mattina nella cattedrale di San Giorgio ha celebrato la divina liturgia alla quale il papa ha assistito. Nel suo discorso, il patriarca, dopo aver salutato con grande affetto il «santissimo ed amatissimo fratello in Cristo, vescovo dell’Antica Roma, signor Francesco», «fratello prediletto», e ricordato come, dopo secoli di gelo, finalmente nel 1964 Paolo VI e il patriarca Athenagoras si incontrarono a Gerusalemme, e da allora i loro successori si sono regolarmente scambiati visite, ha detto che la fede condivisa «vissuta e dogmatizzata dai comuni padri delle nostre Chiese, riunitisi da oriente e occidente nei Concili ecumenici», va di nuovo posta «come base della nostra unità… Perché, veramente, santissimo Fratello, il nostro dovere non si esaurisce nel passato, ma principalmente si estende, soprattutto ai nostri giorni, al futuro. Perché, a cosa serve la nostra fedeltà al passato, se questo non significa nulla per il futuro?… La Chiesa di Cristo è chiamata ad avere il suo sguardo volto non tanto all’ieri, quanto all’oggi e al domani. La Chiesa esiste per il mondo e per l’uomo e non per se stessa». Bartolomeo I si è poi domandato come sopravvivrà l’umanità – dilaniata da svariate divisioni e inimicizie, con la ricchezza della terra distribuita in modo non equo, con una natura distrutta senza pietà dalla cupidigia – senza un soprassalto spirituale, al quale la Chiesa potrà e dovrà contribuire, a patto che sappia nutrirsi essa stessa del Vangelo di Cristo.

Il patriarca ha sottolineato che la Chiesa di Costantinopoli «da sempre rispettava e riconosceva nel corpo della Chiesa un primato di amore, di onore e di servizio, nel quadro della sinodalità». Ed ha rilevato: «La Chiesa della città di Costantino porta sulle proprie spalle una pesante eredità, ma anche una responsabilità sia per il presente che per il futuro. In questa Chiesa, la divina Provvidenza attraverso l’ordine costituito dai santi Concili ecumenici, ha assegnato la responsabilità del coordinamento e dell’espressione della omofonia [unica voce] delle santissime Chiese ortodosse locali. Con questa responsabilità lavoriamo già accuratamente per la preparazione del Santo e Grande Concilio della Chiesa ortodossa, che si è deciso di convocare qui, a Dio piacendo, entro l’anno 2016… Purtroppo, la rottura millenaria della comunione eucaristica tra le nostre Chiese non permette ancora la convocazione di un grande comune Concilio ecumenico. Preghiamo dunque che, ristabilita la piena comunione tra di esse, non tardi a sorgere anche questo grande ed importante giorno». La congiuntura storica esige il superamento delle nostre divisioni, ha concluso Bartolomeo I: «Non possiamo più permetterci il lusso di agire da soli. Gli odierni persecutori dei cristiani non chiedono a quale Chiesa appartengono le loro vittime. L’unità, per la quale ci diamo molto da fare, si attua già in alcune regioni, purtroppo, attraverso il martirio».

Rispondendogli, dopo aver anch’egli ricordato i passi compiuti negli ultimi cinquant’anni, sulla scia del decreto del Vaticano II, Unitatis redintegratio, il quale sottolinea che le Chiese ortodosse «hanno veri sacramenti e soprattutto, in forza della successione apostolica, il sacerdozio e l’Eucaristia, per mezzo dei quali restano ancora unite con noi da strettissimi vincoli», e ribadisce l’importanza dei Concili ecumenici della Chiesa indivisa, Francesco ha detto che la sperata piena comunione «non significa né sottomissione l’uno dell’altro, né assorbimento, ma piuttosto accoglienza di tutti i doni che Dio ha dato a ciascuno per manifestare al mondo intero il grande mistero della salvezza realizzato da Cristo Signore per mezzo dello Spirito Santo. Voglio assicurare a ciascuno di voi che, per giungere alla meta sospirata della piena unità, la Chiesa cattolica non intende imporre alcuna esigenza, se non quella della professione della fede comune, e che siamo pronti a cercare insieme, alla luce dell’insegnamento della Scrittura e dell’esperienza del primo millennio, le modalità con le quali garantire la necessaria unità della Chiesa nelle attuali circostanze: l’unica cosa che la Chiesa cattolica desidera e che io ricerco come Vescovo di Roma, “la Chiesa che presiede nella carità”, è la comunione con le Chiese ortodosse».

Questa ricerca, ha aggiunto Bergoglio, va fatta ascoltando «con forza» le voci che si levano nel mondo d’oggi, e «che domandano alle nostre Chiese di vivere fino in fondo l’essere discepoli del Signore Gesù Cristo. La prima di queste voci è quella dei poveri… Non possiamo rimanere indifferenti di fronte alle voci di questi fratelli e sorelle. Essi ci chiedono di lottare, alla luce del Vangelo, contro le cause strutturali della povertà […]. Una seconda voce che grida forte è quella delle vittime dei conflitti in tante parti del mondo. Questa voce la sentiamo risuonare molto bene da qui, perché alcune nazioni vicine sono segnate da una guerra atroce e disumana… La voce delle vittime dei conflitti ci spinge a procedere speditamente nel cammino di riconciliazione e di comunione tra i cattolici ed ortodossi […]. Una terza voce che ci interpella è quella dei giovani. Oggi purtroppo sono tanti i giovani che vivono senza speranza, vinti dalla sfiducia e dalla rassegnazione… Le nuove generazioni non potranno mai acquisire la vera saggezza e mantenere viva la speranza se noi non saremo capaci di valorizzare e trasmettere l’autentico umanesimo, che sgorga dal Vangelo e dall’esperienza millenaria della Chiesa».

Traguardi, attese, inquietudini, speranze

Molteplici sono le cifre di questo viaggio, e vari i protagonisti.

Francesco. Il vescovo della prima Roma ha fatto balenare quale potrebbe essere il suo ruolo in una Chiesa riconciliata. La questione del papato, discussa dalla citata Commissione mista, anche nell’ultima riunione (Amman, settembre 2014) non ha però trovato soluzione. Quando, nella cattedrale di San Giorgio, Francesco ha domandato a Bartolomeo I di pregare per lui e per la Chiesa di Roma, ed ha posto la testa tra le sue mani, il patriarca lo ha baciato sul capo, ma non lo ha benedetto, perché una benedizione avrebbe significato – nella sensibilità ortodossa – una piena comunione, che invece non c’è. Tuttavia, teologicamente parlando, intensissimo è stato il gesto del papa. Esso, in qualche modo, scuote le definizioni dogmatiche del Concilio Vaticano I (1870) sul primato pontificio e sull’infallibilità papale: parole che il Vaticano II ha provato ad addolcire, cercando timidamente di inquadrarle in un contesto di collegialità. Ma esse rimangono come pietre e, senza decostruirle, ogni gesto per bypassarle rischia di evaporare. Solo il giorno in cui all’interno della Chiesa romana la collegialità episcopale – che Francesco ha iniziato germinalmente ad attuare – sarà norma, il discorso con l’Ortodossia prenderà nuovo vigore.

Bartolomeo I. Ha fatto il massimo, nella situazione data, per aprire, con Francesco, nuove vie verso la riconciliazione. Tuttavia, descrivendo il ruolo del suo patriarcato, ha fatto riferimento indiretto al Concilio di Calcedonia (451) il quale, riprendendo il Costantinopolitano I (381), dava alla «seconda Roma» «uguali privilegi» concessi alla «prima Roma», in quanto anch’essa sede dell’imperatore. Primus inter pares tra i gerarchi ortodossi egli, basandosi su quei Concili, rivendica «la responsabilità del coordinamento» tra le Chiese ortodosse, e quella di esprimere la loro voce; la situazione storica, però, è totalmente cambiata, e l’imperatore bizantino non c’è più. D’altronde, la presenza dei greco-ortodossi in Turchia è quasi simbolica, mentre forte è la loro presenza altrove (due o tre milioni, ad esempio, negli Usa). L’esito della dialettica tra la diaspora e il Fanar determinerà il futuro del patriarcato ecumenico.

Kirill. Il patriarca di Mosca era il convitato di pietra agli incontri del Fanar. Infatti egli, con il suo Sinodo, critica l’attivismo di Bartolomeo I, accusato di comportarsi come «un papa degli ortodossi», ferendo così l’autonomia delle Chiese autocefale; e dunque non accetta come egli, nel discorso al papa, ha potenziato il suo ruolo. I russi non sopportano che Bartolomeo I sia definito, nei siti costantinopolitani, «leader spirituale dei trecento milioni di ortodossi nel mondo». Kirill, affermando di avere cento milioni di fedeli in patria, ritiene incredibile che Bartolomeo I, che ne ha cinquemila in Turchia, rivendichi certi privilegi. Date queste premesse, non è scontato il cammino del Concilio pan-ortodosso previsto per il 2016 a Istanbul (vedi Confronti 4/2014), né le speranze riposte in esso da Bartolomeo I. Mosca, la «terza Roma», darà filo da torcere alla «seconda».

D’altronde, al di là di tali questioni istituzionali – che, pur non toccando l’unità nella fede, gravano assai pesantemente sulle reciproche relazioni! – problemi giganteschi incombono sull’Ortodossia. Se, nel suo Concilio, essa fondasse la sua identità in una comprensione della Tradizione (o tradizione, con la «t» minuscola?) incapace di confrontarsi con la modernità, e si compattasse opponendosi graniticamente, ad esempio, ai ministeri femminili ordinati, potrebbe, forse, in questo, saldarsi con il magistero della «prima» Roma. Così, però, le tre Rome e le loro sorelle perderebbero per sempre non solo gli eredi della Riforma, ma anche tanti e tante loro fedeli; e dimostrerebbero al mondo del terzo millennio che oggi non è più il tentativo di spiegare il mistero del Dio teandrico a dividere le Chiese, ma il corpo della donna. E quale gioioso Evangelo, allora, potrebbero credibilmente annunciare cristiani prigionieri di un desolante fondamentalismo?

Tornando a Francesco: il suo avvicinamento a Costantinopoli, problematico per la Chiesa russa, rende più urgente, in sé, un incontro tra lui e Kirill; del resto, lo stesso papa ha detto ai giornalisti di essere pronto a questo ma, ha precisato, adesso è più difficile per il patriarca, a causa della crisi ucraina (sulla quale, osserviamo noi, Kirill e Bartolomeo I hanno idee differenti). Sul fronte intra-cattolico, poi, l’insieme dei problemi posti alla «prima Roma» dall’Ortodossia, la questione dei ministeri femminili, e poi i temi del dialogo cristiano-islamico, sono, naturalmente insieme ad altri, motivi in più per affrettare – questa la nostra opinione – la convocazione di un «Vaticano III».

 

(pubblicato su Confronti di gennaio 2015)

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