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Obama, un presidente poco «fortunato»

by redazione

di Paolo Naso

Con il risultato delle elezioni di midterm che si sono svolte a inizio novembre, si può considerare concluso il ciclo politico di Barack Obama. Gli restano ancora due anni di presidenza, difficilissimi, nei quali sia la Camera dei rappresentanti sia il Senato sono nelle mani dei repubblicani.

«Giudico potere esser vero, che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre», affermava Machiavelli per spiegare che il destino di un principe solo per metà dipende dalla sua virtù; per la metà restante dipende dalla fortuna. E Barack Obama, di fortuna ne ha avuta poca. Forse più netta del previsto, la sconfitta dei democrats alle elezioni di mid-term del 4 novembre pronosticata in tutti i sondaggi è puntualmente arrivata ed ha consegnato il Congresso ai repubblicani.

I dati sono così evidenti e corposi che ci costringono ad affermare quello che in cuor nostro non avremmo mai voluto ammettere, ovvero che con questo risultato si è concluso il ciclo politico del primo presidente nero degli Stati Uniti, l’uomo che soltanto sei anni fa ci aveva stupito con la sua vision dinamica e globale e che aveva saputo restituire una speranza ad ampi strati dell’elettorato ormai rassegnati all’idea che, chiunque fosse andato alla Casa Bianca, nulla sarebbe cambiato nella qualità della loro vita.

Dopo anni di Bush e del suo inflessibile conservatorismo «compassionevole» in politica interna e interventismo in quella estera, Obama rappresentò per ampi strati democrats e per la maggioranza dell’opinione pubblica internazionale un’alternativa non solo plausibile ma eccezionalmente attrattiva: in molti sognarono – sognammo – la svolta di un’America più attenta all’urgenza di politiche ambientali sostenibili, più proiettata sui bisogni delle minoranze e delle classi popolari che sugli interessi dei banchieri e delle corporations, impegnata a far funzionare la diplomazia piuttosto che a ricorrere all’uso della forza militare. Il giovane Obama, con la sua eccezionale capacità di comunicazione – Yes, we can! – seppe motivare e stimolare energie politiche fresche e quindi attrarre a sé importanti quote di elettorato disilluso.

Ma, come insegnava Machiavelli, il destino di un principe è per metà virtù e per metà fortuna. E se la prima non ha difettato, la seconda ha presto girato le spalle al giovane presidente arrivato alla Casa Bianca nel 2008. Allora, a solo un anno dallo scandalo dei mutui facili concessi a migliaia di famiglie americane per sostenere l’economia finanziaria, era difficile prevedere che gli Usa si stavano avvitando in una crisi seconda soltanto a quella storica del 1929. Obama non aveva alcuna responsabilità, neanche quella di omessa vigilanza (che va invece imputata a George W. Bush), eppure è lui che ha portato la croce degli effetti di quella devastante vicenda.

Le cose non sono andate meglio sul piano della politica internazionale. Il presidente non è mai stato un pacifista e, al contrario, si è sempre espresso per una politica di «realismo» che comprende e legittima l’uso della forza militare anche sugli scenari internazionali. Desiderosa di rimuovere il bellicismo di Bush, l’opinione pubblica progressista europea ha sognato – abbiamo sognato – che il nuovo presidente fosse il novello Martin Luther King che, invece che da un pulpito di Montgomery, predicava dalla scrivania della Stanza ovale della Casa Bianca. Non era così, e quella è stata una nostra colpevole illusione. Obama non era e non è un pacifista ma un pragmatico che, anche per ragioni di bilancio, intendeva chiudere due scenari di guerra: l’Iraq e l’Afghanistan. Come noto c’è riuscito in un caso, peraltro lasciando però un vuoto politico le cui conseguenze oggi appaiono drammatiche, ma non nell’altro: insieme alla guerra in Vietnam, quella di Kabul sarà quindi ricordata come la più lunga che abbia impegnato l’esercito americano oltre i confini nazionali.

L’esito incerto e talora contraddittorio delle rivoluzioni arabe non ha semplificato il quadro ma, al contrario, lo ha complicato: moralmente convinta di dover sostenere le «rivoluzioni» pensando che fossero naturalmente democratiche, la politica estera della Casa Bianca ha finito per aprire la strada a movimenti jihadisti che nel tempo sembrano essersi accorpati nell’Isis.

Di fronte a questo scenario così complicato e fluido, Obama è apparso incerto e confuso: un atteggiamento che l’America non perdona al suo commander in chief. Ma debole in politica estera, il presidente non è apparso più forte sul piano interno: la sua riforma sanitaria continua a scontentare tanto il partito del welfare («troppo poco e troppo tardi») che quello del rigore e la lobby delle assicurazioni («una scopiazzatura dell’Europa, mentre l’Europa sta abbandonando questo modello oneroso e inefficace»). Stesso discorso per la riforma della legge sull’immigrazione: vero e proprio cavallo di battaglia dei primi anni di presidenza, è arrivata a conclusione ma con un risultato più modesto rispetto alle premesse e alle promesse. Queste incertezze hanno finito per alienargli il consenso della minoranza dei latinos. Ed infine, proprio a ridosso del voto, l’ammissione di un’incertezza sulla strategia di contrasto dell’Ebola.

Ma, paradossalmente, il terreno sul quale Obama ha perso la sua battaglia decisiva è stato quello dell’occupazione. Attualmente il tasso è del 5,8; meno di un anno fa era al 7; nel picco della crisi ha superato il 10. Un miracolo, per il metro europeo, figlio della virtù del presidente. Ma la virtù non basta, occorre anche la fortuna. E, a causa dell’onda lunga della crisi, molti americani si sono trovati un lavoro peggiore e meno pagato di quello che avevano prima della crisi e, soprattutto, percepiscono che il mercato economico nazionale e globale resta fragile. Gli americani non sono disposti a convivere con l’incertezza, la precarietà e l’insicurezza, virtù in cui noi italiani sembriamo eccellere al punto da farne un tratto del costume nazionale. Sei anni fa l’America ha votato Barack perché l’ha fatta sognare. Infranto quel sogno se ne cerca un altro e si fa una nuova scommessa politica.

(pubblicato su Confronti di dicembre 2014)

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