Repubblica centrafricana: un altro paese a rischio «somalizzazione» - Confronti
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Repubblica centrafricana: un altro paese a rischio «somalizzazione»

by redazione

di Jean-Léonard Touadi

C’è un posto nel mondo dove, nel 2014, l’umanità rischia di assistere impotente ad un altro genocidio. Un posto dimenticato, un popolo ignorato, una repubblica fantasma, una guerra assurda come tutte le guerre. Questo posto è la Repubblica centrafricana. Un posto sconosciuto, una guerra dimenticata, assente dall’agenda delle cancellerie che contano; un genocidio in atto nel black-out generalizzato dell’informazione dei grandi network internazionali. Guerra etnica, violenze religiose, guerra a bassa intensità, barbarie ataviche sono tutte le espressioni dietro le quali nascondiamo il nostro cinismo, la nostra cecità coltivata, la nostra indifferenza codarda. Guerre lontane, sofferenze altrui, immagini fugaci che ci fanno guardare la sofferenza senza approfondire il dolore di nostri simili inghiottiti dalla «geopolitica del cinismo».

Le cifre non dicono quasi niente del dolore che vivono le popolazioni. Eppure la comunità internazionale aveva tutto a disposizione per conoscere l’ampiezza e l’intensità della crisi del Centrafrica: 4,6 milioni di persone toccate dalla crisi, quasi tutta la popolazione del paese; 1,6 milioni hanno bisogno di aiuti immediati per non morire; 500mila sfollati all’interno del paese vagano da un posto all’altro di un territorio senza sicurezza; 800mila bambini non vanno più a scuola e rischiano di cadere vittime di stupri e di arruolamento nelle milizie (bambini soldato); circa un milione di persone in fuga verso i paesi limitrofi (Camerun, Congo-Brazzaville, Ciad…). Un girone infernale che ricorda tutta la via crucis delle guerre recenti: lo stupro etnico come pratica; uccisioni di massa con machete; arruolamento forzato dei giovani sotto le bandiere delle milizie; saccheggi, torture inflitte ai prigionieri, traffico di stupefacenti. L’anarchia regna sovrana in tutto il territorio del paese e le milizie controllano pezzi importanti del territorio sottratto alla sovranità delle autorità della capitale. La Repubblica centrafricana è il simbolo drammaticamente vivente di un «failed state», uno stato fallito in preda ad una profonda somalizzazione. Un territorio «somalizzato» (neologismo degli anni ’90) è quello dove lo Stato centrale ha perso la capacità di controllo lasciando libero campo alle milizie. Lo Stato fallito non garantisce più i servizi essenziali. Tutto il sistema dei servizi sociali è al collasso: niente scuole, nessuna infrastruttura di trasporto tenuta in funzione, un sistema sanitario inesistente e un esercito sbandato senza stipendi, senza addestramento e senza motivazione.

Guerra per il potere

Guidate da un capo ribelle, le milizie si spartiscono il territorio nazionale seguendo l’unica logica, quella della legittimità combattente. Con il potere delle armi stabiliscono un dominio assoluto sulla porzione di nazione conquistata e vi esercitano una «sovranità» violenta basata sulle violenze esercitate sulla popolazione, sul controllo delle materie prime (estrazioni minerarie di diamanti, uranio, oro), sul commercio delle armi e degli stupefacenti. Nasce in quei territori un’economia di guerra basata sul terrore con il sogno di «marciare sulla capitale» sempre in nome della legittimità combattente per una breve rivoluzione «etnica» prima di essere sconfitta da un’altra legittimità combattente di segno opposto. È la storia della Repubblica centrafricana, quest’alternanza di milizie al potere provvisorio esercitato con terrore sulla popolazione rassegnata.

Dopo circa un trentennio di regimi militari alternatisi conflittualmente sotto Dako (1960-1965), Bokassa (1965-1975), Kolingba (1981-1983), un governo civile viene istituito nel 1993 sotto la presidenza di Patassé. Il suo governo dura per un decennio ed è caratterizzato da immobilismo economico e politico, corruzione, violenze e tensioni interetniche, tanto che nel 1997 si rende necessario il dispiegamento di una forza di interposizione militare dei paesi africani, successivamente rilevata dalla missione di pace Onu denominata Missione interafricana di sorveglianza degli Accordi di Bangui (Misab), successivamente rilevata dalla missione di pace Onu denominata Minurca, operativa dal 1998 al 2000. Nel 2003 un colpo di Stato guidato dal generale Bozizé impone un governo di transizione.

Intanto nel paese scoppia una guerra civile tra i due clan rivali, sostenitori dei due leader, che riduce in ginocchio la già fragile economia. Le contestate elezioni del 2005 segnano, poi, l’affermazione di Bozizé a presidente. L’incarico gli viene confermato alle elezioni del 2011, ma un nuovo conflitto tra le forze governative e i ribelli esplode nel dicembre 2012. Bozizé viene deposto nel marzo del 2013 e Michel Djotodia (leader del gruppo Seleka) si autoproclama presidente fino alle sue dimissioni a dicembre scorso (Look-out, Gennaio 2014).

Nonostante le dimissioni del loro leader Michel Djotodia, i ribelli della Seleka continuano a seminare morte e distruzioni a danno della popolazione civile a Bangui e nelle altre città da loro controllate. Contrariamente alla vulgata comune che parla di milizia musulmana, la Seleka («coalizione», nella lingua sango) è composta di 22.350 ribelli di tutte le religioni. La maggioranza è di religione musulmana (65%), ma ci sono anche cristiani (20%) e un 15% di appartenenti ad altre religioni. Il punto in comune è la lotta contro l’ex capo dello Stato, Bozizé, accusato di esercitare un potere dittatoriale e di tradimento degli accordi stipulati nel 2008 a Libreville, in Gabon. Molti leader della Seleka sono accusati da numerose organizzazioni per i diritti umani di aver perpetrato crimini contro l’umanità, soprattutto quando entrarono a Bangui, la capitale, per prendere il potere. Testimoni raccontano di fosse comuni scoperte nella periferia delle città, esecuzioni sommarie, torture, stupri e tante altre violenze contro civili inermi a Bangui e in altre località del Nord-est del paese: Sam Ouandja, Ouanda Djallé.

Contro i ribelli della Seleka si è scatenata la furia omicida degli anti-Balaka, milizia «cristiana» ritenuta vicina all’ex presidente deposto Bozizé. Anche gli anti-Balaka si sono macchiati di crimini contro l’umanità documentati da numerose organizzazioni di difesa dei diritti umani. La spirale cieca della violenza non ammette paragoni. La milizia antagonista ai ribelli Seleka è entrata in macabra gara contro i loro nemici utilizzando la stessa furia terroristica sulla popolazione, soprattutto quella di religione musulmana.

Accanto a queste due milizie, il Centrafrica potrebbe diventare un teatro d’elezione per tutte le guerriglie operanti nella regione, proprio per la porosità delle sue frontiere e per l’assenza di controllo da parte di un potere centrale. Potrebbero giovarsi del caos centrafricano i gruppi armati del Lord resistance army che operano nel Nord dell’Uganda, la temibile setta integralista e terroristica nigeriana Boko Haram, i combattenti sudanesi del Darfur scesi dal Nord del Ciad e presenti in Centrafrica.

Gli interessi geopolitici

Non solo milizie: anche gli stati stranieri hanno i loro interessi politici o strategici. A cominciare dalla Francia. Con puntuale continuità, sotto la quinta Repubblica la Francia ha curato i suoi interessi strategici nell’area utilizzando la sua ex colonia. Lo ha fatto mantenendo una importante e strategica base militare nella città di Bouar, centro nevralgico dell’Ovest del paese a confine con il Camerun. Da questa base la Francia tiene d’occhio alcuni dei suoi feudi postcoloniali: il turbolento Ciad, il Congo-Brazzaville, il ricco Camerun e il Gabon. I rapporti tra la Francia e la Repubblica centrafricana sono l’esatta fotografia di quello che viene denominata la «Françafrique», ossia quella rete complessa d’interessi politici, geopolitici e geoeconomici, di complicità, d’ingerenza e di grandi affari che legano la Francia ai suoi ex possedimenti coloniali. La presenza in Centrafrica permette alla Francia di controllare ciò che avviene nella Repubblica democratica del Congo, nel Sud Sudan e, in generale, nella regione dei Grandi Laghi africani. Non è un caso, quindi, se dal 1960 la Francia ha guidato e imposto tutti i cambiamenti politici nel paese. Ciò spiega l’impegno militare francese con l’operazione «Sangaris», lanciata con l’avallo formale del Consiglio di sicurezza dell’Onu, con una risoluzione approvata il 10 ottobre scorso. Operazione francese con la benedizione dell’Onu che resiste ad impegnarsi in modo massiccio con il pretesto di essere già presente in Mali. La risoluzione si accontenta di sostenere, oltre alla Francia, gli sforzi dell’Unione africana, che vara la forza di pace africana (Misca) dispiegata nella Repubblica centrafricana ed autorizzata all’uso della forza per il «disarmo e allontanamento immediato, volontario o con la forza, di tutti gli elementi armati stranieri sul territorio della Repubblica centrafricana», compito per la quale la forza africana riceverà «l’adeguato supporto aereo». Sul terreno i fatti dicono che la missione sta incontrando molte difficoltà. La presenza francese è percepita come un revival di altre operazioni dal sapore neocoloniale più di cinquant’anni dopo l’indipendenza. Nonostante una neutralità professata ed esibita, una parte della popolazione centrafricana non si fida. Soprattutto quella di religione musulmana, che accusa i soldati francesi di proteggere solo i cristiani. Accuse che Parigi respinge con forza, premendo sui partner europei per l’allargamento della missione ad altri paesi. Il 20 gennaio i ministri degli Esteri dell’Unione europea hanno deciso l’invio di un contingente di circa 500 uomini, in appoggio ai 1600 francesi già presenti nel paese, e 365 milioni di euro per far fronte alla grave crisi umanitaria in corso.

Tutte le atrocità commesse sono state descritte da testimoni attendibili: giornalisti, profughi e sfollati, missionari ancora presenti a Bangui e nei territori remoti. A metà di dicembre un grido d’allarme (l’ennesimo) di Medici senza Frontiere è lanciato con dovizia di particolari. Si tratta di testimonianze drammatiche di operatori a Bangui nella zona dell’aeroporto Mpoko, diventata in poche settimane la metropoli dei disperati senza soccorso né speranza; nei campi di Bouali, dove erano accolti donne e bambini con l’orrore dipinto sui volti; nella città di Bossangoa, con 30mila persone rifugiatesi nella missione cattolica senza nessuna possibilità di portare loro soccorso. La macchina dell’emergenza internazionale non si è mobilitata per il Centrafrica e la morte silenziosa avvolge il paese in un dramma senza narrazione.

L’Onu ha lanciato un allarme tardivo e il Consiglio di sicurezza si appresta a votare una risoluzione come da prassi (una risoluzione non si nega a nessuno, proprio perché non impegna nessuno nella sua cinica vaghezza). Come a Srebrenica, in Ruanda, in Darfur e in mille altri luoghi del pianeta, l’Onu è sempre presente. Vede e denuncia, ma rinuncia a mettere in pratica un principio maturato di recente nella coscienza mondiale e nel diritto internazionale: il diritto di proteggere. Un diritto assoluto che dovrebbe porsi al di sopra di altri principi come quello della non-ingerenza negli affari interni degli stati sovrani. Ma la Repubblica centrafricana non è mai stata uno stato sovrano. Dopo la sua indipendenza solo formale, conquistata negli anni ’60 sotto la guida di Barthélemy Boganda, il paese entra in una fase di tumulti sanguinosi durata decenni con l’alternarsi di regimi militari. L’epoca più buia della storia del Centrafrica è quella del dittatore Jean-Bédel Bokassa (1965-1979), autoproclamatosi imperatore d’Africa con una cerimonia sfarzosa e ridicola nella sua imitazione di Napoleone, con tanto di corona di diamanti e un lusso scandaloso benedetto dalla Francia di Valéry Giscard d’Estaing, suo compagno di caccia e protettore della sua tirannia.

(pubblicato su Confronti di febbraio 2014)

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Repubblica centrafricana: un altro paese a rischio «somalizzazione» 29 Gennaio 2014 - 12:51

[…] C’è un posto nel mondo dove, nel 2014, l’umanità rischia di assistere impotente ad un altro genocidio. Un posto dimenticato, un popolo ignorato, una repubblica fantasma, una guerra assurda come tutte le guerre. Questo posto è la Repubblica centrafricana. Un posto sconosciuto, una guerra dimenticata, assente dall’agenda delle cancellerie che contano; un genocidio in atto nel black-out generalizzato dell’informazione dei grandi network internazionali. Guerra etnica, violenze religiose, guerra a bassa intensità, barbarie ataviche sono tutte le espressioni dietro le quali nascondiamo il nostro cinismo, la nostra cecità coltivata, la nostra indifferenza codarda. Guerre lontane, sofferenze altrui, immagini fugaci che ci fanno guardare la sofferenza senza approfondire il dolore di nostri simili inghiottiti dalla «geopolitica del cinismo»… Leggi tutto su confronti.net […]

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