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Il Fondamen-talista riluttante

by redazione

Nel film «Il fondamentalista riluttante», il protagonista è un giovane professore pakistano che si laurea negli Stati Uniti e lì intraprende una brillante carriera di analista finanziario. Ma la sua vita viene letteralmente sconvolta dall’11 settembre, quando agli occhi dei più appare inevitabilmente come «il musulmano», cioè l’elemento pericoloso, il nemico. Tornato in Pakistan, anche lì si troverà di fronte ad altre forme di semplificazione delle identità che non potrà accettare.

di Marcella Felici

«Le cose non sono come appaiono» è l’affermazione con cui il protagonista del film, un giovane professore dell’università di Lahore (Pakistan), apre il racconto che ricostruisce la maturazione delle sue scelte. La frase, rivolta al suo interlocutore – un giornalista americano – è anche suggerimento per lo spettatore.

Giovane rampollo di una famiglia non più agiata della buona borghesia, Changez a diciotto anni parte per gli Stati Uniti. Qui si laurea col massimo dei voti e intraprende una rapida e promettente carriera di analista finanziario. Il ragazzo vive a pieni polmoni il sogno americano: «Dio benedica l’America, dove si contende ad armi pari e la vittoria è dei più bravi!». È un’adesione totale e gratificante. Impegnato in missioni difficili, si muove concentrato sui «fondamentali», come si sente ripetere dal suo mentore, che in lui coltiva un manager vincente. Ma questo non allenta il legame con la realtà d’origine che gli è continuamente presente nel caldo legame affettivo con la famiglia di cui, per la sua scelta americana, orgogliosamente si sente sostegno necessario.

È su questo equilibrio, saldo e indiscutibile, che impatta l’11 settembre. Quando, solo in una stanza, si trova davanti le immagini televisive delle torri colpite, Changez ha una reazione imprevedibile: come una bolla d’aria che dal profondo arrivi alla superficie, gli nasce un sorriso di ammirazione per l’audacia di quel gesto e per l’arroganza messa in ginocchio. È un momentaneo, intimo moto dell’animo che ancora sa dell’ideologia americana: quella dell’audacia che porta risultato. Nel suo racconto il protagonista commenta: «Dopo l’11 settembre non io, ma gli altri per me, hanno preso posizione». L’America si arrocca e un patriottismo urlato fa di ogni individuo connotabile a vista come «arabo» o «musulmano» un elemento pericoloso, un nemico. Con la polizia che lo trattiene e lo perquisisce in forme umilianti, con le aggressioni, verbali e non, di sconosciuti, l’accogliente atmosfera americana si dissolve per Changez: «una sottile, strisciante violenza si era insinuata nella mia vita e non sapevo come eliminarla».

Il momento senza scampo giunge quando anche lo sguardo della sua donna sembra essere risucchiato dal clima generale: neppure la relazione d’amore è riuscita a sottrarsi al bisogno di tipizzazione – «il mio pachistano» – e questo rende drammaticamente chiaro al protagonista il meccanismo di semplificazione delle identità e l’assolutizzazione dei valori che sottostanno a identità così costruite.

Allora Changez lascia l’America, di cui ha scoperto il lato oscuro di una libertà che si realizza solo nel servizio ai «fondamentali». A Istanbul si fa toccare dalla provocazione di un colto libraio che gli racconta dei giannizzeri, quei giovanissimi cristiani sottratti dall’impero ottomano alle loro famiglie e alla propria cultura ed educati alla fedeltà totale alla nuova patria. Torna infine a Lahore. Si dedica all’insegnamento universitario e le sue lezioni sono seguite con passione dagli studenti, richiamati alla responsabilità di operare scelte rispetto a un progetto di «sogno pachistano». Contattato e ammaliato dal capo della resistenza, capisce presto che l’arruolamento è, ancora una volta, essere fedeli a dei fondamentali – in questo caso alle «verità del Corano». Ma Changez non può più rinunciare ad una autenticità che non sopporta semplificazioni.

Nel film, la narrazione verbale è predominante, e le immagini nei lunghi flash back scontano una certa convenzionalità. I personaggi, pur calati in una situazione storicamente molto connotata, sono costruiti secondo riconoscibili strutture narratologiche, a partire dal protagonista che, attraverso il viaggio e varie prove, giunge alla sua maturazione. Questi meccanismi di prevedibilità catturano lo spettatore, pur non aprendo ad approfondimenti significativi. E tuttavia quello che la visione di questo film sembra offrire è una riflessione sui percorsi esistenziali dei personaggi – del protagonista soprattutto – per la conquista di un proprio, necessario, punto di vista sul mondo. Rispetto a questo, il titolo risulta piuttosto fuorviante.

(pubblicato su Confronti di novembre 2013)

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1 comment

Valentina 24 Ottobre 2013 - 22:32

Non ho visto il film ma ho scoperto che è tratto da un romanzo, che probabilmente comprerò, ma che ahimé non viene menzionato nella recensione e forse sarebbe stato utile nella critica capire la fedeltà al testo originale, o la possibile differenza fra i due mezzi nella resa del messaggio. Pertanto, non so se concordare con l’osservazione di Felici riguardo al titolo, che è quello scelto per il libro e che in fondo sembra calzare, inoltre, quasi sempre, la precisa connotazione in film e libri di autori orientali, la loro costruzione su strutture narratologiche riconoscibili, rientrano nella lunga tradizione dei cantastorie, del Kam ma Kam. Nel complesso trovo apprezzabile la recensione proprio perché è andata evidenziando alcuni punti sul cui valore, di debolezza o meno, certamente dopo aver visto il film, ci si può confrontare.

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