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Bomba o non bomba?

by redazione

Il governo di Israele, così come quello di altre nazioni nucleari asiatiche, non ha sottoscritto il Trattato di non-proliferazione e la sua diplomazia ha sempre avuto una posizione di «ambiguità», non ammettendo di possedere armi atomiche. Ma pare accertato che la produzione prese avvio già dopo la guerra del ‘67.

«Israele e la bomba» è il titolo di un libro di Avner Cohen, uno studioso israeliano che ha ricostruito la logica e le vicende del programma nucleare del suo Paese. Al libro, uscito nel 1998, nonostante l’opposizione della censura militare israeliana, è seguito nel 2010 un altro suo saggio: «The worst-kept secret: Israel’s bargain with the bomb».

Quali i fatti essenziali? Con il sostegno della Francia, al termine di un negoziato complesso e segreto condotto dal premio Nobel per la pace Shimon Peres, attuale presidente di Israele, e Ernst Bergmann, un fisico a quel tempo direttore del Weizmann institute of science, Israele iniziò a costruire alla fine degli anni Cinquanta un reattore nucleare a Dimona, nel deserto del Negev. La produzione di armi nucleari prese avvio dopo la guerra del ‘67. Sospetti, illazioni, ipotesi iniziarono a circolare sui media mondiali negli anni successivi; la prima conferma dall’interno scaturì dalle rivelazioni nel 1986 di Mordechai Vanunu, un tecnico addetto a Dimona, poi catturato a Roma dai servizi segreti israeliani, trasferito in Israele e condannato a lunghi anni di carcere, ora in libertà.

La diplomazia di Israele si è conformata nel corso degli anni ad una posizione di «ambiguità» in materia nucleare, secondo la definizione dello stesso Cohen, non ammettendo di possedere armi atomiche e asserendo fin dagli anni Sessanta di non volere essere il primo Paese a introdurre dette armi nel Medio Oriente. In coerenza con tale posizione, il governo di Israele non ha sottoscritto il Trattato di non-proliferazione nucleare, così come altre nazioni nucleari (India, Pakistan, Corea del nord).

Quantità e qualità del dispositivo atomico del Paese sono ovviamente ignote. Secondo stime della Federation of american scientists (2007), Israele disporrebbe di un numero compreso fra 75 e 400 testate e di una moltitudine di vettori – missili balistici a medio e lungo raggio della classe Jericho, aerei, sottomarini della classe Dolphin di produzione tedesca. Sottomarini e missili assicurano a Israele una capacità di reazione («second strike») a un attacco atomico. Questa capacità è un deterrente essenziale nella dottrina strategica del Paese, data la sua particolare topografia: un Paese minuscolo, densamente popolato nei suoi centri abitati, circondato da avversari – è storia politica – e con la sua legittima esistenza nella regione ancora in forse, non riconosciuta da parte del mondo arabo e sotto ripetute minacce di aggressione da parte dell’Iran. In più, la necessità di «fare da sola» in caso di guerra, priva come è di una garanzia internazionale della propria scurezza e integrità.

Almeno in due episodi bellici Israele, secondo alcune ricostruzioni, avrebbe posto le sue forze in stato di allerta nucleare in funzione preventiva: l’8 ottobre 1973, nei primissimi giorni della guerra del Kippur sotto l’avanzare degli eserciti egiziano e siriano, e nuovamente durante l’attacco dei missili iracheni Scud sulle città di Israele nel corso della guerra del Golfo del 1991. In più circostanze ha agito in modo offensivo per impedire a Paesi ostili di dotarsi di armi atomiche: i due casi più eclatanti sono stati gli attacchi aerei contro il reattore nucleare di Osirak in Iraq nel giugno 1981 e contro un presunto reattore in Siria nel settembre 2007.

Un’ultima notazione, quanto allo scacchiere multilaterale. Già nel 1996 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite esortò le parti a istituire nel Medio Oriente un’area priva di armi atomiche e anche nell’ambito del Trattato di non-proliferazione, rinnovato ed esteso nel 1995, si è fatto appello all’obiettivo di una regione libera da armi di distruzione di massa.

Ed è proprio il potenziale di disseminazione di armi siffatte che preoccupa di più, a mio parere. La stessa «ambiguità» di Israele, cioè l’ammettere la capacità di costruire l’arma nucleare, pur senza riconoscere necessariamente di possederla, può essere uno stimolo perverso per altri Paesi ad emulare Israele, annullando così il suo vantaggio strategico e provocando una corsa pericolosa agli armamenti nella regione. Fra questi, l’Iraq degli anni Ottanta, poi la Libia, che fortunatamente rinunciò al programma, nel 2003, oggi la Siria, nel marasma della guerra civile e con dotazioni di armi chimiche e batteriologiche. Il caso più grave, oggetto di un serrato negoziato con la comunità internazionale, è ovviamente quello dell’Iran, con le sue velleità egemoniche nell’area. Infine, come antagonisti dell’Iran e potenziali imitatori di un programma nucleare, l’Arabia Saudita e gli sceiccati del Golfo Persico.

La stessa deterrenza offerta dalle armi nucleari contro un’aggressione non-convenzionale è messa in discussione all’interno di Israele. Opinionisti e studiosi osservano che la capacità di risposta per un Paese piccolo come Israele, che sarebbe totalmente devastato da un attacco atomico, sarebbe irrilevante. Sarebbe più importante e benefico per la sicurezza del Paese un impegno da parte degli stati della regione, verificato puntigliosamente dalle agenzie internazionali, ad evitare di costruire o smantellare, allorché esistenti, propri arsenali nucleari.

Giorgio Gomel

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