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ALL’INTERNO DOSSIER SULLE CARCERI: un’emergenza non più rinviabile

by redazione

Era il 28 luglio scorso quando il presidente della Repubblica individuava nello stato della Giustizia in Italia «una questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile… un’emergenza assillante, dalle imprevedibili e al limite ingovernabili ricadute, che va affrontata» e auspicava che si fosse capaci di «un simile scatto, di una simile svolta, non foss’altro per istinto di sopravvivenza nazionale».

A quasi un anno da quel «grido di dolore», Giorgio Napolitano torna a chiedere «nuove e coraggiose soluzioni strutturali e gestionali». Non c’è altro modo, dice in occasione della festa della Polizia penitenziaria, «per superare il punto critico e insostenibile cui i problemi del carcere sono giunti».

«Vox clamantis in deserto», vien da pensare; ed è difficile dar torto al leader radicale Marco Pannella che invoca un messaggio alle Camere («lo strumento costituzionale a disposizione del presidente»), così da mettere le forze politiche con le spalle al muro.

Secondo gli ultimi dati, 67mila persone sono stipate in celle che ne potrebbero/dovrebbero contenere non più di 40mila; e l’80 per cento degli istituti è in condizioni che definire fatiscenti è un eufemismo. Così, ora anche il governo Monti prova a mettere in campo un suo piano carceri. Tre anni e mezzo fa l’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano promise mari e monti. Non è riuscito a realizzare neppure uno degli undici nuovi penitenziari pianificati. Vedremo se Monti-Severino avranno miglior fortuna. Il decreto salva-carceri non ha dato i risultati attesi: il numero dei detenuti è sceso di appena 300 persone. Ora i tecnici si cimentano con una sfida ancora più difficile, anche in relazione al poco tempo a disposizione.

Il 18 aprile, in un’audizione alla Commissione Giustizia della Camera, il Commissario all’attuazione del Piano carceri Angelo Sinesio ha illustrato i dettagli del nuovo programma a cui intende lavorare l’esecutivo. Si prevede di realizzare 11.573 nuovi «posti detentivi». Visti i cantieri aperti negli ultimi tre anni, circa 2.800 posti costruiti tra ristrutturazioni e nuovi padiglioni aperti in carceri già attive, l’impresa appare ardua, specie in considerazione delle risorse a disposizione del Commissario per attuare il piano, 447 milioni di euro: 228 in meno rispetto al precedente. Così, più che abbattere i costi, Sinesio e il suo gruppo di lavoro puntano a rimodulare la qualità della spesa.

Le nuove carceri si riducono a quattro: Torino, Camerino, Pordenone e Catania, per un totale di 1.800 posti. A conti fatti la maggior parte dei posti, 4.759, verrebbe realizzata tramite il completamento di 17 padiglioni ed il recupero di spazi presenti all’interno di altri 10 penitenziari. Ulteriori 3.600 posti deriverebbero dalla costruzione di 16 padiglioni in altrettanti istituti già attivi: Opera (Milano), Rebibbia (Roma), Secondigliano (Napoli), Bologna, Sulmona, Lecce e Trapani.

L’attuazione del nuovo piano, così come di quello precedente, rimane strettamente vincolata ai fondi a disposizione. Per mandato, il Commissario può spendere solo le risorse che ha effettivamente in cassa: al momento non sono tutte quelle necessarie alla realizzazione del piano. Di sicuro non farà ricorso al «project financing» per reperirne altre, come ipotizzato dall’articolo 43 dell’ultimo decreto inserito da esponenti della maggioranza nel «Mille proroghe», perché il commissariamento non prevede la possibilità di ricorrere a questo tipo di intervento.

Ma non c’è solo il problema delle carceri. È l’intera macchina della Giustizia che non funziona: basti pensare che ogni anno 200mila processi circa vanno in prescrizione per scadenza dei termini (una inefficienza che dovrebbe interessare gli economisti, oltre che i giuristi): risarcimenti per ingiusta detenzione o per errore giudiziario sono costati allo Stato 46 milioni di euro nel 2011 (vedi l’intervista nella pagina seguente).

Nel frattempo nelle carceri si muore. L’ultimo caso è quello di un detenuto romeno, si chiamava Pop Virgil; era in carcere dal 2000, condannato a 18 anni per un cumulo di pene per rapine e furti. Si proclamava innocente, chiedeva un colloquio con il magistrato; colpevole o vittima di errori giudiziari, a questo punto è irrilevante. Conta il fatto che dopo cinquanta giorni di digiuno sia morto, la desolata «normalità» di una realtà che questa vicenda rivela.

E a proposito di «normalità» e di notizie che non «fanno notizia». Si chiama Michele Schiano, ha 84 anni, è rinchiuso nell’Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Aversa. Il suo reato è quello di non aver rispettato alcuni obblighi di legge mentre era in libertà vigilata per un’accusa di presunte molestie. Schiano non si regge in piedi, quando apre bocca non riesce ad articolare parole ma confusi balbettii, come possa risultare pericoloso e temibile, non si comprende bene. Però continua a restare chiuso nell’Opg di Aversa: la sua casa è una cella che divide con altri tre detenuti, se ne sta sempre in disparte, solitario e sognante come un bambino messo in castigo; nessuno lo vuole né lo cerca, è un sepolto vivo nel lager più antico d’Italia: il Filippo Saporito di Aversa risale al 1876. Un paramedico, amaro racconta: «Come Schiano vegetano negli ospedali-prigione italiani decine di cittadini vittime di una giustizia che in troppi casi non contempla il diritto al reinserimento e si adagia nel barbaro concetto del “fine pena mai”. A volte, succede che le famiglie accettino di riprendersi in casa il matto, ma solo per derubarlo della pensione, svuotargli il conto corrente e ri-seppellirlo nel lager autorizzato».

Schiano è tenuto prigioniero nell’Opg di Aversa solo perché non si sa dove mandarlo, come assicurargli la necessaria assistenza. Tra non molto gli Opg verranno chiusi, ed è giusto perché sono luoghi di sofferenza e dolore. Come e da cosa saranno sostituiti non si sa.

Valter Vecellio

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