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La Siria banco di prova dei nuovi equilibri

by redazione

Stati Uniti e Nato da una parte, Russia e Cina dall’altra: queste le due «squadre» che stanno giocando in Siria la partita che determinerà i futuri assetti internazionali. I primi premono per un intervento (rafforzando così, di fatto, proprio il regime che vogliono abbattere) ma i secondi pongono il veto all’Onu.

La Siria continua ad essere al centro dell’attenzione della politica internazionale. Occupa l’agenda di diversi governi e organismi internazionali ed è sotto i potenti riflettori dei media. Il Paese è oggi al centro di una grande controversia tra i colossi mondiali: Usa/Nato da un lato e Russia e Cina dall’altro. L’esito finale della crisi siriana determinerà un nuovo equilibrio mondiale a favore di uno dei due blocchi. La caduta del regime siriano consoliderebbe l’egemonia degli Usa/Nato; la sua tenuta, invece, rimetterebbe in carreggiata la Russia e la Cina (due membri permanenti del Consiglio di sicurezza). Il veto dei russi e dei cinesi contro un intervento militare in Siria sotto l’egida dell’Onu sembra avere ridato un po’ di visibilità a questo organismo, rimasto nell’ombra dalla fine della guerra fredda, e schiacciato dalla corruzione e dalla cattiva politica soprattutto nell’ultimo decennio.

Se la Siria uscirà sana e salva dalla sua crisi e non farà la fine dell’Afghanistan, dell’Iraq e della Libia, anche un Onu – riformato – potrebbe riprendere il suo ruolo importante di «arbitro» neutro nei conflitti internazionali.

Perché la Siria è un importante banco di prova per un nuovo equilibrio internazionale? L’importanza della Siria deriva dalla sua specificità dal punto di vista demografico, culturale, storico, religioso e soprattutto dal punto di vista geografico. È un Paese storicamente multiculturale e multireligioso che condivide le sue frontiere con la Giordania, l’Iraq, la Turchia, il Libano e Israele. Tutti questi cinque Paesi confinanti appartengono – il Libano in parte – all’area d’influenza del blocco Usa/Nato. La Siria, invece, è rimasta legata alla Russia e ospita a Tartus l’unica base militare russa presente sul Mediterraneo. Ecco perché gli Usa vogliono la testa di Bashar al-Assad, mentre la Russia lo difende (come lo difende anche l’Iran, un altro nemico dell’Occidente nel mirino, ma per colpirlo bisogna prima far fuori la Siria).

I siriani e la sovranità nazionale

Incastrati in mezzo a questa diatriba geopolitica – provocata ad arte dagli Usa e dai suoi alleati – i siriani stanno vivendo da più di un anno una situazione drammatica che rischia di mettere in pericolo la loro sicurezza e la sovranità nazionale del Paese. Per questo motivo, e nonostante la Siria sia sotto regime autocratico, molti siriani sono schierati con il governo e non perché siano legati al regime ma «per amor di patria». Sanno che un brusco e violento «regime change» orchestrato dall’esterno sarebbe la fine per il loro Paese. In Tunisia e in Egitto, dove le rivoluzioni pacifiche hanno costretto i dittatori a mollare il potere, la schiacciante maggioranza era contro il regime. In Siria l’orientamento è diverso. Oggi al-Assad gode di una discreta popolarità. Una parte dei siriani è con lui, un’altra parte non aderisce alla rivolta. E ad oggi solo una minoranza del popolo è mobilitata – chi con le bandiere, chi con le armi – contro al-Assad.

Eppure è innegabile che Bashar al-Assad sia il capo di un regime dittatoriale sagomato sul modello del partito unico (Al-baath). La famiglia al-Assad governa in modo assoluto da 40 anni la Siria repubblicana. Sotto il governo di Hafez al-Assad gli oppositori al suo regime sono stati imprigionati, esiliati o eliminati. Nel 1982, il generale Rifa’t al-Assad, fratello di Hafez e zio dell’attuale presidente siriano, condusse un’offensiva militare contro Hama, uccidendo circa 25mila abitanti secondo Amnesty international, 40mila secondo fonti vicine ai fratelli musulmani che furono il principale bersaglio di quella brutale operazione (oggi il generale Rifa’t al-Assad vive in Francia, oggi in prima linea contro al-Assad nipote, come rifugiato politico!).

Non vi è dubbio che vi è un problema di legittimità politica: Bashar non è stato eletto liberamente e democraticamente dai siriani. Fu suo padre a portarlo al potere modificando la Costituzione per trasformare il regime politico in una «repubblica ereditaria». Tuttavia, paragonare Bashar al-Assad a Ben Ali, Mubarak, Gheddafi o Ali Saleh è poco credibile e lo pensano molti siriani.

Di fronte alla forte mobilitazione sociale e politica – spontanea in alcuni casi (Egitto), provocata da forze esterne in altri (Libia) – per il cambiamento dei regimi, avviata in diversi Paesi arabi all’inizio del 2011, al-Assad ha dato inizio ad una serie riforme – per alcuni formali, per altri importanti – tra cui l’abolizione del regime del partito unico e la promulgazione di una legge che consenta il multipartitismo, l’emanazione di una legge per la libertà di stampa e soprattutto la creazione di una nuova Costituzione approvata con un referendum alla fine del mese di febbraio con il 90% di sì. Diversamente da quanto aveva fatto in Libia Gheddafi, che aveva minacciato di perseguitare i ribelli «via per via» e «casa per casa», o da come sta facendo al-Khalifa nel Bahrein, inseguendo i manifestanti con i carri armati sauditi, al-Assad si è dimostrato aperto al dialogo e alla mediazione della Lega Araba prima e di Kofi Annan, inviato dell’Onu, dopo.

Paradossalmente, se domani si facessero le elezioni presidenziali, al-Assad potrebbe vincerle tranquillamente. Egli oggi dispone di diversi elementi che giocano a suo favore: – il successo clamoroso dei fratelli musulmani e dei salafiti in Egitto; – lo stato disastroso in cui gli Usa hanno lasciato l’Iraq, dove sta dilagando un violento scontro settario tra sunniti e sciiti; – i risultati catastrofici dell’intervento Nato in Libia, che sta portando alla disgregazione dell’unità nazionale di questo Paese; – il ritorno sulla scena siriana dei jihadisti dopo 30 anni di clandestinità, i quali non riconoscono l’unità nazionale e l’identità siriana in quanto sostenitori del mito della umma e del panislamismo. I salafiti combattono oggi in prima linea contro il regime. Gli islamisti, fratelli musulmani in testa, chiedono l’intervento militare internazionale in Siria. Il predicatore jihadista Adnan al-Aroor, sostenuto dall’Arabia Saudita, ha emesso una fatwa in cui chiede di «tagliare la lingua» a tutti coloro che sono contro l’intervento militare. – la comparsa di Al Qaeda in Siria attraverso gli attentati a Damasco e ad Aleppo avvenuti all’inizio di quest’anno.

Sulla tenuta del regime, occorre rammentare che, salvo qualche defezione, l’esercito è rimasto fedele ad al-Assad che, inoltre, continua a godere del sostegno dell’apparato amministrativo e diplomatico. Il regime è sostenuto da gran parte dei membri delle minoranze siriane: alawita, alla quale appartiene al-Assad, cristiana e una parte consistente della comunità sunnita, che costituisce la maggioranza di cui sono membri la moglie di al-Assad e il gran mufti della Siria.

Tutti questi elementi suggeriscono che ogni scontro armato e ogni soluzione della crisi in Siria che preveda l’uso delle armi porterebbe al disastro in Siria perché sarà una guerra dei siriani contro i siriani.

L’unica soluzione è il dialogo nazionale che consente il passaggio da un regime autocratico ad un regime democratico. E ciò può avvenire solo in presenza di un’opposizione interna forte e coesa. Il problema è che l’opposizione siriana è molto divisa, confusa e individualista.

Opposizione divisa e debole

L’elemento cardine che spacca l’opposizione è la divergenza tra le sue varie anime su tre punti essenziali che avrebbero probabilmente giocato a favore degli oppositori e messo in crisi il regime, ovvero il confessionalismo, la rivolta armata e l’intervento militare straniero.

Una parte dell’opposizione, quella sponsorizzata dall’esterno, ovvero il Consiglio nazionale siriano (Cns) con base ad Istanbul, e l’Esercito siriano libero (Esl), opposizione armata ospitata in territorio turco al confine con la Siria, ha detto di sì a questi tre punti; mentre gran parte dell’opposizione interna, in particolare il Consiglio nazionale del Coordinamento per il cambiamento democratico (Cnccd), li ha categoricamente rifiutati. Haytham Mannaa, uno dei leader del Cnccd, ha dichiarato di recente: «Noi vogliamo far cadere il regime senza distruggere il Paese». Del suo stesso parere diversi oppositori indipendenti, come lo scrittore Michel Kilo.

Siamo quindi di fronte a due logiche contrapposte: una interventista, che consentirebbe al Cns e all’Esl di giungere al potere con l’aiuto della Nato, e una nazionalista che ha scelto la via della mobilizzazione popolare pacifica per far transitare il Paese verso la democrazia senza passare per la guerra civile.

La storia ci insegna che la presa del potere con le armi difficilmente porta alla democrazia. Uno studio pubblicato un anno fa circa dalla Columbia University Press ha dimostrato che, in caso di lotta armata, le probabilità di una transizione democratica vera sono solo del 3% e ci vogliono 5 anni, mentre in caso di rivoluzione pacifica le probabilità sono del 51% (E. Chenoweth, «Why civil resistance works», 2011).

La tangibile frammentazione dell’opposizione e la poca credibilità di cui gode una parte di essa (quella esterna soprattutto) presso la maggioranza dei siriani sono in sostanza la conseguenza della forte ingerenza di Paesi terzi che spingono verso il cambiamento di regime nella direzione che coincide con i loro interessi nella regione. L’opposizione da appoggiare deve essere quella che, una volta giunta al potere, possa assicurare agli Usa e ai suoi alleati di controllare il Paese. E per essere sicuri è meglio metterla in piedi direttamente e sostenerla attraverso governi satelliti come quello turco (che ha tutto da guadagnare alleandosi con Washington, visti i problemi che ha ancora con i curdi e con gli armeni) e mediante l’ausilio di regimi dispotici sottomessi come quello del Qatar e dell’Arabia Saudita che sperano che gli Usa continuino a proteggerli dalle «contagiose epidemie» della democrazia e dei diritti umani che oggi «minacciano» il mondo arabo islamico.

A fine aprile sono giunti in Siria diversi osservatori dell’Onu in seguito al piano di «pace» di Annan. I siriani seguono l’evoluzione della mediazione Onu tra speranza e preoccupazione. Preoccupati sono anche gli Usa/Nato per un eventuale successo della missione, perché guasterebbe i loro già pronti piani bellici!

Mostafa El Ayoubi

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