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Il femminicidio e l’informazione cieca

by redazione

È nata «GiULiA», la rete delle Giornaliste unite libere autonome, per dire basta alla cronaca-spettacolo e all’uso del corpo delle donne sui media e per un’informazione finalmente rispettosa delle donne. Quella che l’informazione si limita a descrivere come una serie di omicidi di donne – lamenta la coordinatrice nazionale di GiULiA – è in realtà un fenomeno ben preciso, che si chiama «femminicidio» ed è la prima causa di morte per le donne fra i 16 e i 44 anni in Italia. I media devono liberarsi da un linguaggio che spesso aggiunge altra violenza alle vittime.

Il bel sorriso di Stefania Noce. La foto in cui sventola un foglio con su scritto «Non sono in vendita», alla manifestazione del 13 febbraio di «Se non ora quando» a Catania, ha scandito negli ultimi giorni dell’anno i profili di Facebook con tristezza e sgomento. Un tam tam virtuale di rabbia e di incredulità. Studentessa di Lettere, politicamente attiva, uccisa il 27 dicembre in provincia di Catania dal suo ex fidanzato. L’ennesimo «delitto passionale» di cui sono quotidianamente vittime le donne.

«Ha ancora senso essere femministe?», si chiedeva Stefania in un articolo per il giornalino dell’Università. Da leggere sul sito del Movimento studentesco catanese, che di Stefania mantiene vivo il ricordo.

Di tutto questo non si è saputo nulla se non navigando in internet. Nei giornali i titoli sono: «L’ex confessa: l’amavo più della mia vita». «Stefania uccisa perché donna», corregge Lea Melandri sulla 27esima ora, il blog del Corriere della sera. Un fatto che ha colpito, che ancora fa discutere, trattato dai media come routine e subito dimenticato. Un omicidio di donna oggi, uno domani.

E non è certo per coincidenza che il 2012 si è aperto con la cronaca di un altro omicidio di donna: Antonella Riotino, 21 anni, uccisa in modo brutale a Putignano dal fidanzato diciottenne.

Non sono i grandi «gialli» di Yara, Sara, Melania su cui si intrattiene l’opinione pubblica oltre ogni limite. Sono i soliti omicidi di donne, per mano di partner, mariti, padri, fidanzati. Notizia cotta e mangiata. Avanti il prossimo.

Ma è ormai evidente una saturazione per questo modo di raccontare la realtà. Il movimento delle donne, in Italia, sta esprimendo un protagonismo sociale e politico che rimette tutto in discussione, pretende un cambio di passo su tutto e vuole affermare un’altra visione della società, più umana, libera, giusta. Duale. E l’informazione d’un tratto appare fuori tempo. Colpisce la distanza tra i media ufficiali (stampa e tv) dal sentire dell’opinione pubblica. E quanto più vicina sia l’informazione del web che gli stessi utenti alimentano, quanto più ricca e più utile sia alla formazione dell’opinione pubblica.

Il tappo sta saltando. Cresce l’insofferenza per un’informazione cieca. Quella che vede una serie di omicidi di donne e non coglie, né racconta, il fenomeno del femminicidio, prima causa di morte per le donne fra i 16 e i 44 anni in Italia, e tace l’allarme sociale che dovrebbe invece richiamare.

Categorie come «delitto passionale», «raptus di follia», «non sopportava di essere lasciato», sottendono una scusante. Un tempo si scusava anche il delitto d’onore, fino a che, nel 1981, non furono abrogate le attenuanti previste dal Codice Rocco.

Il modo in cui stampa e tv liquidano questi omicidi non è più tollerabile. Usare questo linguaggio è un’altra forma di violenza alle vittime. E ci offende come donne.

Il cambiamento culturale che serve è radicale e richiederà tempo, perché stratificata nel tempo è la cultura maschile dominante. Fatta anche di sessismo quotidiano, moralmente accettato perché erroneamente ritenuto non nocivo. L’informazione, anziché essere un motore di cambiamento, è lo strumento che questa cultura consolida e legittima.

Anche per questo è nata GiULiA, la rete delle Giornaliste unite libere autonome: perché non sopportiamo più la cattiva informazione e non tolleriamo più l’esclusione del nostro punto di vista.
È bastata un’idea, creare un gruppo, per vedere quanto profondo sia questo bisogno tra le giornaliste: in poco tempo oltre 500 adesioni e ne continuano ad arrivare sul sito internet www.giuliagiornaliste.it che ha scelto di stare in Globalist.it, syndication di siti indipendenti. Freelance, precarie, con lavoro stabile, di ogni regione d’Italia, insieme per difendere la nostra dignità di giornaliste dentro e fuori le redazioni e per cambiare l’informazione. E siamo state ricevute al Quirinale, cui ci eravamo rivolte per presentare il nostro Manifesto d’intenti.

Si deve voltare pagina: basta con la cronaca-spettacolo, con l’uso delle donne come corpo sui media, con l’esclusione sistematica di temi e soggetti sociali nel racconto del mondo e del Paese.

Vogliamo che tutta l’informazione televisiva, della carta stampata, dei siti, dei femminili abbia un racconto rispettoso delle donne e non inquinato da interessi oscuri. Più inchieste e meno gossip. Senza timori reverenziali verso il potere e i poteri. E vogliamo che il servizio pubblico faccia la sua parte. Di più: vogliamo che alla Rai sia assegnata, come negli anni Cinquanta, una nuova missione «storica»: quella di portare le donne e una società nuova nel terzo millennio.

Il cambiamento deve partire da noi e all’interno della professione. Faremo campagne di denuncia e gesti quotidiani. Il sito è la nostra voce, la nostra critica e la nostra informazione alternativa. E faremo questa battaglia per il cambiamento anche con i colleghi che condividono le nostre urgenze e la nostra battaglia di civiltà.

Alessandra Mancuso

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