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Euro: correggere la rotta definita dalla Germania

by redazione

Nel quadro in cui si trova l’Europa – spiega a Confronti il responsabile del settore Economia e lavoro del Partito democratico – insistere sull’austerità cieca e sull’ulteriore regressione delle condizioni delle persone che lavorano porta tutti, anche i Paesi cosiddetti forti, a fondo. Senza promuovere lo sviluppo sostenibile e valorizzare il lavoro, non si riduce il debito pubblico (la Grecia insegna).

Siamo in una fase di straordinari cambiamenti. Il termine «crisi» è sempre meno utile a fotografare il passaggio in corso. Siamo, in realtà, in una «grande transizione» articolata lungo quattro fondamentali assi: geo-economico e geo-politico; demografico; economico e sociale; ambientale.

Navighiamo in mare aperto, ma la rotta è incerta. È evidente il deficit di analisi e di direzione politica. Il «trionfo delle idee fallite» domina il dibattito politico. Innanzitutto, nell’Unione europea e nell’area euro. L’euro è a rischio, non per colpa degli speculatori, ma a causa delle ampie asimmetrie di competitività delle aree legate alla moneta unica. Non possono convivere a lungo, a meno di non attuare crescenti trasferimenti dai bilanci pubblici, Paesi con significativi e continuativi attivi della bilancia commerciale (Germania, in primis) con Paesi gravati da altrettanto significativi e ricorrenti deficit negli scambi di beni e servizi (Grecia, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda). Insomma, nell’Unione europea e, in particolare, nell’area euro, le radici della rottura del precario equilibrio del ventennio alle nostre spalle non stanno nei debiti pubblici dei «Paesi peccatori», ma in un sistema squilibrato dove «i peccatori», grazie al loro indebitamento in larga misura privato, alimentavano le esportazioni dei cosiddetti «Paesi virtuosi». Il debito privato, a sua volta, veniva contratto dalle famiglie per compensare la caduta dei redditi da lavoro e l’aumento della disuguaglianza. In tale quadro, insistere sulla austerità cieca e sull’ulteriore regressione delle condizioni delle persone che lavorano porta tutti, anche i Paesi cosiddetti forti, a fondo. Senza promuovere lo sviluppo sostenibile e valorizzare il lavoro, non si riduce il debito pubblico (la Grecia insegna).

Per correggere verso l’alto i differenziali di competitività e promuovere sviluppo sostenibile e lavoro, è necessaria «più Europa». Innanzitutto, la cessione della residua e formale sovranità sulle politiche economiche ad una sede federale intergovernativa dell’area euro, legittimata sul piano democratico, per condividere e recuperare sovranità effettiva nell’arena globale. Il passaggio di sovranità è condizione necessaria per segnare la difficile transizione in corso in senso progressivo.

Noi, l’Italia, abbiamo tanti compiti a casa da fare. Ma noi non siamo la causa dei drammatici problemi dell’euro. Noi siamo la forma più acuta di difetti strutturali dell’impalcatura politica, istituzionale ed economica dell’unione monetaria: 1) l’assenza di una banca centrale in grado di svolgere la funzione di prestatore di ultima istanza ed arginare la pressione sui titoli del debito pubblico dei Paesi solvibili, ma in emergenza di liquidità; 2) l’assenza di un adeguato «Fondo salva-Stati» in grado di affiancare la Bce e di ricapitalizzare le banche in sofferenza; 3) l’assenza di un significativo bilancio pubblico per l’area euro in grado di finanziare, con risorse comunitarie raccolte attraverso l’emissione di Euro-project bonds e la tassa sulle transazioni finanziarie, investimenti nelle infrastrutture materiali ed immateriali; 4) l’assenza di un coordinamento delle politiche retributive e della tassazione per evitare la svalutazione del lavoro come via, miope, alla competitività. Le quattro lacune vanno colmate al più presto per riuscire a correggere le asimmetrie di competitività nello spazio monetario unico e sostenere una domanda interna europea sempre più debole. Soltanto così si può salvare l’euro e l’Unione europea.

Insistere sulla urgente necessità di invertire la rotta della politica economica dell’area euro non è parlar d’altro rispetto ai problemi dell’Italia. Oggi, è sempre più evidente che correggere la rotta definita dalla Germania del governo Merkel e da larga parte delle tecnocrazie di Bruxelles e Francoforte è condizione necessaria per uscire dal tunnel della stagnazione, dell’emorragia di lavoro e di perdita di imprese. Condizione necessaria, certo non sufficiente. L’Italia è in ritardo. Il «decennio perduto», infatti, oltre a essere una certezza del nostro passato, è un rischio reale per il futuro.

Per ricostruire l’Italia, come in tutti i momenti alti della nostra storia repubblicana, le forze migliori del Paese devono cooperare. La ricostruzione richiede un patto tra soggetti della politica, rappresentanze delle imprese e del lavoro e associazioni della cittadinanza attiva. In tale strategia, il Governo Monti può essere una straordinaria opportunità per mettere fondamenta condivise alla «Terza Repubblica».

Fare passi avanti significativi è difficile. Il berlusconismo non è stato un incidente di percorso e non si esaurisce con l’uscita di scena di Berlusconi. È stata un’interpretazione del sentimento profondo di una parte rilevante della società e delle classi dirigenti italiane. Per non smarrirsi e rinsecchire ulteriormente il tessuto della nostra democrazia, la bussola della partecipazione, dell’equità sociale e dello sviluppo sostenibile deve orientare il cammino.

Stefano Fassina – dicembre 2011

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