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L’Aquila anno zero

by redazione

A due anni dal terremoto, il capoluogo abruzzese appare quasi uguale a com’era quel 6 aprile del 2009. Nonostante le promesse, tonnellate di macerie restano nel centro storico. L’autore è direttore di Articolo 21.

Quando nell’agosto 2009 mi sono recato a L’Aquila e ho iniziato a scattare alcune foto, avrei dovuto fissare su un taccuino l’esatta posizione della macchina fotografica prima del clic. L’angolazione, la messa a fuoco, la luce, lo zoom… semplici operazioni che però mi avrebbero permesso, successivamente, di ripetere l’operazione ed osservare i cambiamenti. Ipotetici. Purtroppo non sono stato un fotografo così meticoloso, ma quando la notte del 5 aprile scorso ho cominciato a ripercorrere le strade del capoluogo abruzzese a due anni dal tragico sisma era come se il tempo si fosse fermato. Le macerie sembravano scolpite nel terreno, le transenne nella stessa posizione a sbarrare l’ingresso delle vie secondarie, il distributore di benzina che segnava tutti «0». Metafora spietata di una città all’anno zero devastata come sotto un bombardamento a tappeto.

Trascorsi due anni, mi sarei aspettato di vedere che qualche grave ferita di quel corpo architettonico dilaniato fosse stata rimarginata. Tutt’altro. Quello che osservavo quasi due anni dopo dalla prima visita si sovrapponeva perfettamente con le foto scattate allora. Nelle vie del centro solo una pizzeria e un bar hanno riaperto i battenti. Una banca ha ricominciato ad erogare servizi. Le luci dell’unico negozio di abbigliamento in funzione spiccano nella desolazione degli altri esercizi commerciali, dei vetri infranti, degli scaffali vuoti, delle mura crepate.

Eppure sotto i riflettori delle mille telecamere accorse all’indomani del terremoto, tante erano state le promesse. Altisonanti, roboanti come il boato di quella notte fatale. «Ricostruiremo rapidamente», «rimargineremo le ferite», «riporteremo un’improvvisa anormalità ad una quotidiana normalità». 31 le visite ufficiali in città da parte del presidente del Consiglio, un G8. Mentre tonnellate di macerie restano nel centro storico. La politica della «toppa»: si infiocchetta una città e la si libera temporaneamente dalle macerie più evidenti, o dai rifiuti. La si offre allo sguardo ammirato del capo di Stato di turno e all’occhio indagatore dell’obiettivo. Poi quando il sipario si chiude la realtà torna in tutta la sua tragicità. I cumuli di detriti ricompaiono, dai tappeti riemerge l’immondizia e pervade le strade…

Certo, non si può chiedere a televisioni, radio e giornali di trasferirsi tout court in una città per monitorare e vigilare, quotidianamente, sulle fasi della ricostruzione. Ma neanche di abbandonarla al suo destino salvo poi tornare solo per la ricorrenza annuale. Perché è proprio a riflettori spenti che cominciano i problemi, si accumulano ritardi, si praticano speculazioni, si fanno affari sulle spalle di povera gente che aspetta solo di ritornare alle proprie case.

«Tutti a L’Aquila hanno una casa. Con giardino e garage», ha recitato una figurante in una televisione privata e molto attenta a non scontentare il padrone, che per l’occasione è anche il presidente del Consiglio, quello delle fragorose promesse. Un copione interpretato a pagamento per ingannare spettatori convinti che il latore non sia un attore ma un testimone attendibile, messaggero limpido della luminosa e operosa ricostruzione. Ma il terremoto non è un reality e i terremotati non sono naufraghi di un’isola che alla fine del gioco torneranno alla loro vita da vip.

Altro che case con giardino. 23mila terremotati sono negli insediamenti del Progetto case (case di legno); duemila sono ancora ospiti degli hotel sulla costa. In centinaia vivono in caserma.
E il 68% delle vittime del terremoto non è soddisfatto dell’attuale abitazione. Già, perché avere un tetto sopra la testa e quattro mura per ripararsi dal freddo è sopravvivere, non vivere. Non si può costruire una L’Aquila sintetica come se si trattasse di Milano2. Per poi lavarsene le mani. Le donne, gli uomini, gli anziani e i giovani che per anni hanno vissuto in una città che è un patrimonio culturale del¬l’umanità mal sopportano l’idea di vivere in un surrogato. Vivere una città vuol dire respirarla, camminare lungo le sue strade e ritrovarsi nelle sue piazze, alzare gli occhi ed osservarne i palazzi storici, gli edifici antichi, le chiese, perdersi nei suoi vicoli stretti, inerpicarsi lungo le sue ripide scalinate.

Per questo i cittadini sono arrabbiati, indignati. E non sono più disposti a chiudere gli occhi né a farsi irretire da nuove promesse e men che mai ad accettare che i responsabili, quelli che hanno costruito edifici con materiali scadenti o che ridevano o speculavano mentre una città si sgretolava seppellendo i suoi abitanti, la facciano franca per colpa di una legge, concepita per salvare «uno» da alcuni processi ma che ucciderebbe «tanti» per la seconda volta. «Io non ridevo alle 3:32», recitava un grande striscione portato in corteo dai tanti giovani sopravvissuti al crollo della Casa dello studente. No, non c’è proprio niente da ridere, né barzellette da raccontare né elettori da adescare.

Stefano Corradino

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