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San Suu Kyi è libera, la Birmania no

by redazione

Tutto il mondo ha festeggiato la notizia della liberazione, avvenuta all’indomani delle elezioni «farsa» del 7 novembre, della premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi. Questo gesto non va però inteso come un segnale di apertura della giunta militare, che continua a reggere il paese con il pugno di ferro e violando i diritti umani.

Dopo la commozione e la gioia collettiva per la liberazione della leader birmana Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, è necessario fare il punto sulle nuove sfide che lei, il popolo birmano e la comunità internazionale dovranno affrontare.

Innanzitutto va detto ancora una volta che questa liberazione non rappresenta un segnale di apertura democratica della giunta militare. Erano semplicemente scaduti i termini della illegittima condanna inflitta alla leader birmana. Certo avrebbero potuto tenerla agli arresti ancora, come hanno fatto nel passato, ma alla giunta San Suu Kyi serviva libera. Serviva libera per deviare l’attenzione internazionale dai risultati delle illegittime elezioni del 7 novembre. Elezioni celebrate in base ad una Costituzione redatta unilateralmente dalla giunta, con l’obiettivo di mantenere il proprio potere e di governare attraverso la violazione dei diritti umani, dei diritti dei lavoratori e delle norme ambientali internazionali. Serviva libera per ammorbidire le sanzioni internazionali, per mostrare una faccia «presentabile». Serve libera per garantirsi il sostegno dei soliti paesi che fanno affari con le dittature, anzi tra le dittature: Cina, Russia, Corea del Nord.

Le sfide internazionali sono ancora molte. Innanzitutto va garantita la sicurezza fisica e l’agibilità politica di Aung San Suu Kyi. Le minacce alla sua vita sembrano più che serie. Se fino ad oggi non era impossibile attentare alla sua vita, perché chiusa in casa, sotto il controllo strettissimo dei militari (in caso di attentato le responsabilità sarebbero ricadute direttamente sui suoi aguzzini), oggi nulla impedisce un altro massacro di Depayin. Nel maggio 2003 la leader birmana sfuggì alla morte grazie solo alla prontezza del suo autista che riuscì a farla fuggire da un attacco in grande stile dei militari e dell’organizzazione paramilitare Usda, oggi trasformata nel partito che ha stravinto le elezioni. Si teme anche un suo possible nuovo arresto perché la signora, dal giorno della sua liberazione, non è stata certo ferma. Subito dopo il suo rilascio, Suu Kyi ha parlato al mondo, ha chiesto sostegno, ha iniziato a rimettere insieme l’opposizione democratica, ha dichiarato di voler viaggiare per il paese e ha subito visitato il centro di accoglienza per malati di Hiv/Aids, alla periferia di Rangoon. Un centro gestito dalla Lega nazionale per la democrazia (Nld) che ospita 82 pazienti. Il giorno dopo alcuni funzionari governativi hanno comunicato ai pazienti che avrebbero dovuto lasciare il centro, pena delle azioni legali, poiché il permesso del centro non era stato rinnovato.

Vi sono poi ancora 2.100 detenuti politici in carcere. Va garantita l’agibilità politica alla Lega nazionale per la democrazia, messa fuori legge prima delle elezioni; vanno fatte tutte le dovute pressioni per l’apertura di un dialogo tripartito con la giunta per la democrazia e il cambiamento della Costituzione.

Va ricordato che la Costituzione del 2008 ha posto le basi per un Parlamento sotto il totale controllo militare, prevede l’immunità totale per i militari per qualsiasi violazione dei diritti umani e dei crimini di guerra commessi o che verranno commessi in futuro.

Altro aspetto chiave riguarda le violazioni dei diritti umani, soprattutto – ma non solo – negli stati etnici. Stupri, uccisioni, confisca delle terre, deportazioni forzate, incendi di villaggi, lavoro forzato, bambini soldato…
Thomas Ojea Quintana, relatore speciale dell’Onu sui diritti umani in Birmania, ha reso pubblico a settembre un rapporto nel quale dichiara che le violazioni dei diritti umani, tra cui viene più volte citato il ricorso al lavoro forzato, sono il risultato di una politica dello Stato, con la complicità delle autorità, dei militari e della magistratura. Secondo Quintana, sussiste la possibilità che alcune di queste violazioni dei diritti umani possano rientrare nelle categorie dei crimini contro l’umanità o dei crimini di guerra e propone che le Nazioni Unite possano costituire una commissione d’inchiesta «con un mandato investigativo specifico in modo da intervenire sulla questione dei crimini internazionali».

Grandi sono le preoccupazioni per il lavoro forzato. Questa violenza aumenta soprattutto lì dove si costruiscono grandi infrastrutture, nelle miniere, nelle zone etniche. Il tracciato del nuovo gasdotto e oleodotto di 4000 km dalla Birmania alla Cina vede già dispiegati 13.200 soldati. Dove ci sono loro c’è lavoro forzato. Nello stato del Mon lungo il fiume Pelin, in una miniera d’oro gestita da imprese cinesi, sono di stanza tre battaglioni dell’esercito con il compito di sorvegliare lo sfruttamento della miniera. Lì c’è il lavoro forzato. Per tutto questo la politica deve darsi anche percorsi concreti. La comunità internazionale, come ha detto la leader birmana, non deve mettersi gli occhiali con le lenti rosa. C’è molto, anzi moltissimo, da fare. Innanzitutto non bisogna abbassare la guardia. Questo è un appello alla politica. Non lasciarsi abbindolare dalle parole dolci della giunta, che nasconde sotto uno strato di miele gli stessi artigli di sempre. Non si può credere ad un Parlamento fantoccio. Si devono aiutare le organizzazioni democratiche a crescere sempre più velocemente. Per questo la Cisl sta lanciando una campagna di adozione di attivisti sindacali che in Birmania raccolgono denunce di violazioni dei diritti umani, danno sostegno ai lavoratori forzati in fuga, portano sostegni alimentari, medicinali e quanto altro ai rifugiati interni. Un segno per il cambiamento.

Cecilia Brighi

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