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La strategia del pestaggio mediatico

by redazione

I mezzi di comunicazione vicini a Berlusconi chiamano «giornalismo d’inchiesta» i veleni e i veri e propri avvertimenti che lanciano abbondantemente proprio nei confronti – guarda caso – di chi si mette contro il presidente del Consiglio. Ma i conflitti di interesse nel nostro paese sono tanti e il problema della commistione anomala tra giornalismo e potere non si esaurisce con il caso – certamente clamoroso – di Berlusconi.

Almeno un regalo ce l’hanno fatto, questi mesi cupi e torbidi di vita pubblica italiana: sono serviti a dissolvere l’idea che il conflitto di interessi sia un problema «di lusso» sul quale hanno tempo da perdere giuristi testardi o giornalisti faziosi. Le dimostrazioni ce le abbiamo sotto gli occhi con un’evidenza traboccante. La sequenza di «pestaggi mediatici» che ha imposto i temi alla discussione politica, avvelenandone i contenuti, è stata possibile solo per una concentrazione di potere che ha prosperato indisturbata (anche per responsabilità del centrosinistra, quando era al governo). Da Dino Boffo a Raimondo Mesiano (il giudice dileggiato in tv per i calzini color turchese), da Gianfranco Fini a Emma Marcegaglia, in molti hanno sperimentato quali conseguenze produca assumere posizioni (o emettere sentenze) che abbiano il torto di dispiacere al capo. L’aggressività del giornalismo d’inchiesta, invocata dai promotori di queste campagne, viene citata a sproposito. È vero, l’informazione è fatta talvolta anche di notizie scomode e di trattamenti pesanti per il potente di turno. Il punto decisivo è però quando e perché si scatenino queste tempeste. Il buon giornalismo – anche quello legittimamente schierato, ovunque schierato – dà le notizie quando le ha, e le cerca sempre. Il giornalismo cresciuto dentro il conflitto di interessi dà le notizie quando il capo deve ricondurre all’obbedienza alleati o sostenitori divenuti critici; oppure esporli alla pubblica esecrazione, così da scoraggiare eventuali imitatori. E prima delle notizie dà gli avvertimenti: «potremmo andare a ripescare alcuni dossier a luci rosse…».

Basterebbe questo frullato di veleni per decidere che non se ne può più. Ma forse è diventata finalmente consapevolezza diffusa anche un’altra acquisizione: che il conflitto di interessi ha segnato l’agenda delle priorità pubbliche, la lista delle questioni e dei soggetti sociali da far esistere o da cancellare. Che il lavoro – per citare l’esempio più clamoroso – stia solo adesso, e a malapena, riguadagnando spazio nel discorso pubblico, non è tema lontano dall’assetto della comunicazione, in particolare televisiva: come hanno segnalato nei mesi scorsi quei cassintegrati sardi che per rendere visibile la loro drammatica vertenza hanno dovuto far ricorso alla parodia dell’«Isola dei famosi»; ottenendo un «successo» che la dice lunga sulle deleterie logiche di spettacolarizzazione vigenti in gran parte dell’informazione.

Il conflitto di interessi è una cappa che grava sulla società italiana. Anzi, i conflitti di interesse. È un plurale importante, anche ad evitare accuse di «antiberlusconismo ossessivo». Perché di commistione anomala tra giornalismo e potere non c’è solo quella, smisurata, che fa capo al presidente del Consiglio. È la gran parte dell’editoria ad essere segnata da intrecci proprietari nei quali la notizia diventa merce di scambio per tutelare gli interessi principali (nell’edilizia, nella finanza, nella sanità privata, nella produzione di energia) dei proprietari dei giornali. A settembre John Elkann, il giovane presidente Fiat che già possiede La Stampa di Torino, ha fatto il suo ingresso nel Consiglio di amministrazione di Rcs Mediagroup, da cui dipende il Corriere della sera. Un articolo nella pagine di finanza, e nulla più: dando per scontata – o rimuovendo – l’influenza che questo ruolo può avere sulla posizione che il quotidiano ha assunto nella vicenda di Pomigliano e nelle spaccature tra i sindacati confederali.

I poteri segnano i loro territori in maniera esplicita, ostentata. Diventa perciò ancor più intollerabile che, nello stesso paese, decine e decine di testate stiano arrivando in queste settimane alla morte per asfissia. I tagli drastici al sostegno pubblico decisi da Tremonti, così come l’aumento delle tariffe postali, hanno assestato un colpo quasi letale ai giornali di idee, alle voci delle cooperative, ai fogli dell’associazionismo e del volontariato, alle riviste culturali, alle emittenti estranee alla logica dell’oligopolio. In questa Italia che fa diventare ministro il custode più zelante del conflitto di interessi berlusconiano – quel Paolo Romani che ancora pochi mesi fa è riuscito a modificare le regole della raccolta pubblicitaria in modo da rafforzare ulteriormente lo strapotere Mediaset – tante voci non allineate al flusso dominante sono sull’orlo della chiusura, e devono pure sentirsi prendere in giro da chi le invita a prendere atto di «leggi del mercato» valide solo per i piccoli. Tenere in vita queste voci è una battaglia di libertà importante quanto la riuscita mobilitazione contro il disegno di legge sulle intercettazioni. È pluralismo concreto, è il diritto di parola di quella parte della società italiana che non si è piegata. E che merita ogni supporto.

Roberto Natale

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