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Un confronto sull’ora di religione cattolica a scuola

by redazione

Da sempre la nostra rivista cerca di mantenere vivo il dibattito sul tema dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica. Vi proponiamo gli interventi di Ermanno Genre e don Filippo Morlacchi, relatori all’incontro sul tema che si è svolto il 2 dicembre 2009 nell’aula magna della Facoltà valdese di Teologia, a Roma. Segue un intervento di Giancarla Codrignani sul tema del crocifisso a scuola.

Introduzione di Giuliano Ligabue

L’insegnamento della religione nella scuola pubblica italiana è un nodo irrisolto da quasi un secolo e mezzo, cioè per tutta la storia del nostro Stato unitario: dal 1870 – quando una circolare del Ministero della Pubblica istruzione rendeva possibile l’istruzione religiosa dello studente, ma solo su richiesta dei genitori – al 2009, anno in cui le varie e contrapposte visioni non solo non hanno trovato una qualche composizione ma hanno avuto modo e tempo per acutizzarsi. D’altronde il problema non è di poco conto se si pensa a come chiami in causa, in un sol colpo, la tradizione culturale della nazione e il suo principio costituzionale della libertà religiosa; a come metta di fronte uno Stato laico e le Chiese, prima di tutte una, la cattolica; a come riproponga in continuazione alle istituzioni pubbliche il dovere e la possibilità di mantenersi laiche. La storia nazionale ci racconta che si è dovuto pensare a un patto particolare tra lo Stato italiano e il Vaticano, ed è il Concordato del 1929; che se ne è fatto carico la Costituzione del 1948, all’art. 8 («Tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge»); che un nuovo patto, a Castel Madama (1984), riteneva necessario rinnovare l’originario Concordato e modificarlo parzialmente, aprendosi alle Intese con le confessioni religiose non cattoliche.

L’ultimo quarto di secolo, poi, è attraversato da leggi, leggine e circolari ministeriali che si aggrovigliano senza trovare una via d’uscita. Diventa sempre più chiaro che in discussione non ci sono la conoscenza e la cultura religiosa – l’«insegnamento religioso» – ma qualcosa di ben più esclusivo e indisponibile: l’Insegnamento della religione cattolica (Irc). E solo quello. Fino al 2009 appena trascorso, anno particolarmente agitato. Il 5 maggio la Congregazione vaticana per l’educazione cattolica ricordava perentoriamente alla Conferenza episcopale italiana che «l’insegnamento della religione cattolica è una materia scolastica con le stesse esigenze di sistematicità e rigore delle altre discipline»; da difendere, quindi, come diritto esclusivo e da tutelare da ogni confronto e contaminazione. Arriva, a luglio, la sentenza del Tar del Lazio (n. 7076) che dichiara illegittime due ordinanze emanate due anni prima (2007/08) dall’allora ministro Fioroni in cui si riconosceva una valutazione di privilegio all’Irc, discriminando di fatto chi, liberamente e legittimamente, sceglieva di non avvalersi dell’ora di religione cattolica. Alla ripresa dell’attività scolastica, qualche avvisaglia di novità: dalla proposta, di fonte governativa, di un’ora di religione islamica al progetto del Comune di Roma per un’ora settimanale aggiuntiva di islamismo ed ebraismo. Fuochi fatui, di fronte al nodo di fondo intoccabile: la Chiesa cattolica che non rinuncia alla sua presenza egemone ed esclusiva nella scuola pubblica: rimanendo l’unica istituzione competente a nominare i 25.694 docenti di religione; esigendo che la religione insegnata sia solo quella cattolica; pretendendo di imporre i contenuti stessi dell’insegnamento; riservandosi il potere di revocare la nomina ai docenti non più graditi al proprio vescovo. A fronte di questo potere, uno Stato che paga di tasca propria (800 milioni di euro a carico di tutti i cittadini) docenti scelti da altri e che è costretto a tenersi, quando il vescovo li rifiuta.

Assume un significato di assoluto rilievo, allora, il fatto che nello scorcio finale d’anno (2 dicembre) il direttore dell’Ufficio della diocesi di Roma competente per la pastorale scolastica e l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole – don Filippo Morlacchi – abbia accettato di confrontarsi pubblicamente con le voci di cattolici critici, protestanti e con le espressioni di altre confessioni religiose e di non credenti. Nell’aula magna della Facoltà valdese di Teologia, a Roma, ha aperto il confronto il professor Ermanno Genre, docente presso la stessa facoltà e attento osservatore dei problemi connessi al pluralismo culturale e religioso. A lui ha risposto don Filippo Morlacchi. Due interventi introduttivi che sono stati seguiti e raccolti per quello che erano, da un pubblico attento e motivato: interventi leali e senza infingimenti; un confronto aperto e anche un po’ aspro; nessun dialogo dolciastro. Ne è seguita una molteplicità di voci forti e qualificate, che hanno messo sul tappeto problemi complessi e delicati quali la catechesi all’interno dell’Irc; le difficoltà d’una seria alternativa all’offerta cattolica; la discutibile titolarità statale dei docenti Irc; il limite vaticano alla loro stessa libertà d’insegnamento… Voci nello stesso tempo appassionate, perché tutte evocatrici d’una lunga ricerca personale e d’una ostinata speranza. Ciò che riconoscerà, in conclusione di conversazione, lo stesso Morlacchi: «Vi ringrazio per l’espressione appassionata d’un sentimento in cui leggo una ferita aperta: ne saprò trarre riflessione e aiuto nel mio lavoro, convinto che un vero dialogo, tra di noi, è ancora possibile».

Ma il cattolicesimo non è più religione di Stato

di Ermanno Genre, della Facoltà valdese di Teologia di Roma

La questione di fondo non presenta, mi pare, novità di rilievo se non un ulteriore irrigidimento della Chiesa cattolica nella sua posizione dominante, facilitata senza ombra di dubbio dal governo in carica.

In Europa è vero invece che le cose sono cambiate ovunque e la situazione attuale è in continuo movimento. È dunque importante contestualizzare il discorso dell’insegnamento del fatto religioso per non credere che l’immobilismo ed il confessionalismo italiano siano un fenomeno europeo. È vero il contrario.

In Europa la situazione è diversa

Qualche piccolo flash per motivare quanto sto dicendo e che mostra come la questione trovi soluzioni diverse.
a) Nel maggio 2009, a Berlino, è stato indetto un referendum per introdurre nella scuola pubblica, accanto ad un insegnamento di etica, la materia «religione», sin qui facoltativa. Il referendum era stato promosso dalle due confessioni, cattolica ed evangelica (iniziativa «Pro Reli») al fine di riproporre l’obbligatorietà dell’insegnamento religioso nella scuola pubblica, con la possibilità di scelta tra etica e religione: un tentativo «ecumenico» finito male per chi lo proponeva a una popolazione che nei territori della ex Ddr non appartiene, per circa il 70%, ad alcun credo religioso. Al referendum ha partecipato soltanto il 29% degli aventi diritto e la maggioranza dei votanti ha bocciato la proposta di rendere obbligatorio l’insegnamento religioso. Amaro il commento del vescovo luterano di Berlino: «Abbiamo perso, ma almeno nella città si è cominciato a parlare di religione!». Ci si può domandare se, in un tale contesto culturale, fosse veramente questo il «modo» opportuno per farlo… In ogni caso si è trattato di un dato in controtendenza rispetto ad altri contesti europei in cui la religione sembra avanzare e trovare credibilità anche in ambienti sostanzialmente indifferenti. I cittadini di Berlino, credenti e non, hanno espresso un voto contrario che si presta naturalmente a più letture. Mostra però, comunque lo si valuti, l’inefficacia di una forzatura da parte delle Chiese di maggioranza, che hanno pensato ancora di poter utilizzare gli spazi della scuola ai fini di una presentazione di tipo confessionale del fatto religioso. È noto che questo argomento è stato uno dei temi conflittuali nel momento della riunificazione tedesca.
b) Gli altri tre flash si riferiscono invece ad una diversa realtà, la Svizzera, in cui la problematica religiosa è di competenza cantonale. Non da oggi si assiste, per quanto riguarda l’insegnamento del fatto religioso nella scuola pubblica, a una pluralità di esperimenti e di soluzioni: – nel cantone di Zurigo per esempio (dove cattolici e protestanti si equivalgono), dopo lunghe discussioni e ipotesi, è entrato in vigore, ormai da qualche anno, un insegnamento curricolare aconfessionale, che tratta la questione religiosa da un punto di vista della cultura europea; la catechesi vera e propria è invece rinviata alle diverse comunità di fede. Il fatto religioso, come fatto culturale, è dunque chiaramente distinto dal problema della diversa appartenenza religiosa e confessionale; – nel cantone di Basilea è invece stato soppresso qualsiasi insegnamento religioso nella scuola pubblica: anche per motivi di costi, il cantone ha deciso di non farsene più carico e tale insegnamento è ora affidato alla cura delle Chiese che lo devono finanziare; – nel cantone Ticino, dopo anni di stallo – vi era una proposta cantonale di insegnamento aconfessionale del fatto religioso a cui la Chiesa riformata aveva aderito, ma non la Chiesa cattolica – si è ora dato semaforo verde, in via sperimentale, con il parere positivo del vescovo, ad un progetto di insegnamento comune di tipo non-confessionale.

In Italia qualcosa di nuovo?

L’unica novità sembra essere la riaffermazione della centralità dell’Insegnamento della religione cattolica, ed è una situazione paradossale: per l’Italia, che dal 1984 non ha più una religione di Stato e che in questi ultimi 20 anni ha subìto dei profondi cambiamenti, sociologici, culturali e religiosi, il cattolicesimo si presenta come se fosse, nei fatti, religione di Stato. Di qui tre domande:
1) come mai la Conferenza episcopale italiana non prende atto che non esiste più una religione di Stato e che di conseguenza anche l’Irc (Insegnamento della religione cattolica) è materia facoltativa, di parte, che non si può proporre a tutta la nazione? Perché la Cei non si è opposta, a suo tempo, alle circolari del ministro Fioroni, che sono incostituzionali e discriminatorie, contrarie agli accordi stabiliti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica? Perché si finge che qui non vi siano discriminazioni?
2) essendo l’unica titolare dell’insegnamento religioso nella scuola di Stato, perché la Chiesa cattolica nulla dice sui «non avvalentisi» dell’Irc, che pure hanno diritto ad una formazione di cultura religiosa non-confessionale, ecumenica e interreligiosa che anche numerosi cattolici richiedono? Crede la Cei di poter tutelare la libertà religiosa in Italia con un semplice rifiuto della sentenza di Strasburgo concernente la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche, senza interrogarsi sulla drammatica situazione in cui crescono le nuove generazioni segnate da crescente razzismo e xenofobia? Perché non dare fiducia agli insegnanti di religione in vista di un insegnamento aconfessionale promosso dalla scuola?
3) numerose Agenzie in Europa hanno avanzato proposte per un insegnamento religioso aconfessionale e rispettoso delle minoranze religiose e dei non credenti, a cui hanno partecipato illustri studiosi cattolici. Perché queste proposte in Italia non vengono presentate, discusse? Perché, per limitarmi ad un solo esempio, le linee guida di Toledo non sono neppure state prese in considerazione («Toledo guiding principles on teaching about religions and beliefs in public schools», Osce/Odihr)?

In quale direzione si va?

In quale direzione si stia andando lo ha detto il Congresso dei docenti di Religione cattolica, organizzato dalla Cei il 23-25 aprile 2009, presente la ministra Gelmini. Nella sua relazione al congresso il cardinal Bagnasco ha rivendicato «il pieno riconoscimento dell’Irc da parte dello Stato» e il dovere di «superare ancora residue contraddittorie limitazioni». Quali limitazioni e quali contraddizioni? È chiaro che si punta ad un plus-valore per l’Irc, da riconoscersi nel momento finale della valutazione dello studente. Si aggiunge che tutto questo non costituisce intralcio all’esercizio della laicità perché l’Irc «è garanzia di identità, un impegno di insegnamento che non sia a-situato, cioè fuori contesto, capace di rivisitarsi continuamente».

Significa che, chi cattolico non è, deve sentirsi fuori contesto? E il rispetto delle diversità delle appartenenze religiose? E i diritti dei non credenti? Dice ancora Bagnasco: «Per gli studenti che hanno altro credo religioso o si riferiscono ad altro sistema di significati, conoscere e comprendere la religione cristiano-cattolica significa anche comprendere meglio la cultura italiana, cioè la cultura nella quale si vive». Certamente – questo nessuno lo mette in discussione – ma è onesto ridurre tutto alla tradizione del cattolicesimo, quando altre e significative tradizioni hanno contribuito a formare il nostro pensiero comune, laico e religioso, in Italia?

Ancora, il cardinale: «L’Irc è strumento adatto a interpretare la storia e a proporre orizzonti di senso». Ma è soltanto il cattolicesimo a essere in grado di interpretare e dare senso alla vita? Preoccupa, oggi più marcatamente di ieri, in un paese in cui è soprattutto la Lega a difendere la religione cattolica, la tendenza a far sì che l’Irc debba valere per tutti, segno di autentica italianità, dichiarando «fuori contesto» chi rivendica altri valori e, soprattutto, si attiene ai valori e ai principi della Costituzione repubblicana.

I protestanti italiani

La posizione dei protestanti italiani è stata espressa con chiarezza più volte: le cose sono da tempo cambiate; il Concordato del 1984 e le Intese sono ormai lontani; viviamo in un’altra Italia. Oggi non si giustifica più una politica di «avvalersi o non avvalersi» dell’Irc: è maturo il tempo perché ci sia un insegnamento curricolare del fatto religioso nella pluralità delle sue espressioni, gestito autonomamente dalla scuola e non più dall’autorità cattolica, come avviene in molti paesi europei. Certo, esiste il problema della formazione degli insegnanti di religione che è un problema serio: ma non è un impedimento perché continuino, oggi, ad insegnare quelli che si trovano in servizio, con opportuni corsi di formazione. Ma anche questa prospettiva non sembra avere futuro: perché la Chiesa cattolica non si fida degli stessi insegnanti cattolici! Se la Cei avesse veramente a cuore la formazione di una cultura religiosa in Italia, uscirebbe dal ghetto religioso in cui si è cacciata nel 1984 (questa volta grazie al «socialismo craxiano») per aprirsi ai diversi contributi culturali, di varia natura, che sono oggi ben vivi in Italia e disposti a considerare un autentico approccio culturale e pedagogico ad un insegnamento di cultura religiosa.

L’Irc è aperta a tutti, non è catechismo

di don Filippo Morlacchi, direttore dell’Ufficio della diocesi di Roma competente per la pastorale scolastica e l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole

Desidero fare una premessa generale, senz’ombra di polemica: si ha l’impressione che le minoranze non cattoliche si uniscano, a volte, nell’ottica di un «Davide contro Golia». È certo che la Chiesa cattolica si presenta come un «Golia»; ma per la sua imponenza, non per cattiveria. Senza dimenticare che la controparte non è sempre un Davide. Siamo tutti un po’ Davide e un po’ Golia: l’importante è discutere insieme, in modo che «il Vangelo possa seguire la sua corsa». Come ha recentemente detto il papa nel suo viaggio a Praga, il cristianesimo è nato dall’azione di una minoranza creativa. Ora, non sta a noi essere maggioranza o minoranza; ma sta a noi, tutti noi, l’essere creativi o no.
Vengo ora ai problemi posti dal professor Genre [si veda l’articolo precedente]:
1) Perché la Cei non prende atto che in Italia non c’è più religione di Stato? Dato, che, se lo facesse, non dovrebbe più permettersi il privilegio d’un Insegnamento della religione cattolica (Irc).

Rispondo che l’Irc non si configura come un insegnamento religioso catechistico. L’insegnamento della religione può comportare tre possibili confessionalità: della disciplina, del docente, dello studente. Ora, l’attuale modello di Irc comporta la confessionalità della disciplina (cioè si insegna la dottrina della Chiesa cattolica e del suo magistero) e del docente (deve essere una persona cattolica, riconosciuta idonea all’Irc da parte dall’autorità ecclesiastica cattolica), ma non richiede la confessionalità dello studente (all’Irc partecipa chi vuole). Nel saggio «Quale laicità nella scuola pubblica italiana?» dell’editrice Claudiana si legge che la presenza di studenti di altre confessioni religiose, durante l’ora di Religione cattolica, è un abuso. Non così per noi, che lo consideriamo un successo formativo: se uno studente, di fronte all’alternativa spesso inesistente e più leggera (come il restare in corridoio a divertirsi o uscire dalla scuola) sceglie l’ora di Irc, significa che ne riconosce il valore.

2) L’ora di insegnamento alternativo, rispetto alle disposizioni concordatarie.

La logica dell’attuale Irc è quella di uno Stato che, proprio perché laico, riconosce di non avere strumenti adatti per impartire un insegnamento adeguato della religione cattolica. È infatti dal 1873 che non esistono, in Italia, facoltà teologiche. Lo Stato, riconoscendo che una parte consistente della cultura italiana ha a che fare con la religione cattolica, chiede alla Chiesa cattolica di svolgere un servizio di sussidiarietà. La collaborazione tra Stato italiano e Chiesa cattolica ha comportato un accordo sulle modalità. L’Intesa del 1985 richiede ai docenti di Irc sia i titoli teologici di qualificazione (baccalaureato, licenza, dottorato…), sia la dichiarazione di idoneità da parte dell’autorità ecclesiastica (conoscenza della dottrina cattolica, competenza culturale, abilità pedagogica). In tal senso, l’Irc non è un «privilegio dei cattolici» ma un servizio alla cultura religiosa. Non mi nascondo che non siamo d’accordo su questo punto, ma proprio per questo è necessario il confronto. Pienamente d’accordo, invece, sul lavorare per una buona e seria attività alternativa, che renderebbe più significativa la scelta dello studente. E si sappia che, anche solo utilitaristicamente, una simile ora converrebbe alla Cei.

Riguardo, poi, alle due ordinanze del ministro Fioroni, esse esprimono il riconoscimento non di un privilegio per chi segue l’Irc, ma del valore formativo di una attività dalla valenza culturale e non catechistica, e parallelamente di attività alternative davvero valide; la sospensiva del Consiglio di Stato contro il Tar tutelava infatti anche chi segue l’ora alternativa.

3) La dimensione europea (e la sentenza di Strasburgo sul crocifisso nelle scuole pubbliche).

È certamente importante sprovincializzarsi, allargandosi a una prospettiva europea; ma esprimo anche perplessità nei riguardi di alcune derive europeiste. Non ci si può modellare solo sugli standard di Strasburgo, aprendosi al rischio di scontri tra stati europei, dato che le differenze locali sono abissali: basti pensare a come la politica culturale, sociale, religiosa della Finlandia non sia comparabile con quella della Grecia.

Non è corretto poi ragionare in termini di laicità minimale, per cui lo spazio pubblico dovrebbe restare vuoto. La laicità non è l’azzeramento delle differenze in un minimo comune denominatore, ma è lo spazio dove dev’essere possibile esprimere la ricchezza di ogni singola confessione. Perciò dissento dalla sentenza di Strasburgo: innanzi tutto il crocifisso non è un simbolo solo «cattolico», perché dovrebbe unificare tutti i cristiani; inoltre una parete bianca non è più «neutra» se prima c’era un crocifisso: il volerlo togliere rimanda a quella laicità che vuole azzerare tutto.

4) Chi non è cattolico, è fuori contesto?

No, perché nell’ora di Irc tutti – almeno lo vorremmo – dovrebbero sentirsi a casa, il musulmano come l’ebreo o l’ortodosso. Così si fa Irc oggi: una presentazione onesta e non faziosa dell’insegnamento cattolico; laddove vi siano connessioni con le altre confessioni, si deve entrare con serietà nel loro merito. Questo non significa che si pretenda di garantire un insegnamento super partes, perché un punto di vista c’è sempre, anche quando si insegna storia o letteratura. Nell’Irc si dà il punto di vista cattolico, non la verità oggettiva.

5) Obbligatorietà dell’Irc?

Nessuno oggi desidera che l’ora di Irc sia obbligatoria; ma il motivo della facoltà di non avvalersene non dipende dall’essere cattolici o no. L’ora di Irc intende porre la questione della verità ultima, proponendo la risposta della Chiesa cattolica. È il problema della verità, che viene posto; e per questo qualcuno potrebbe volersi sottrarre al confronto.

La storia della cultura italiana è segnata da un pesante storicismo, per cui tutte le discipline – eccetto quelle matematiche – vengono lette in chiave storica. In questo contesto, il rischio dell’insegnamento del «fatto» religioso è quello di svuotarlo dell’impatto squisitamente religioso, che è la questione della verità e la domanda di senso. Un insegnamento aconfessionale potrebbe ridursi facilmente ad una presentazione stinta e sbiadita, poggiata unicamente sulle manifestazioni storico-sociali.

L’attuale configurazione dell’Irc, proprio perché non esige l’adesione confessionale di chi ascolta, ma intende esprimere onestamente il punto di vista cattolico, senza né vantare una presunta neutralità né pretendere l’adesione di fede dell’alunno, mantiene la sua validità – fermo restando che domani potrebbe cambiare.

Per concludere: la percezione che l’Irc nella scuola pubblica sia un problema e non una risorsa – risorsa da affiancare alle altre – non è la percezione della Chiesa cattolica né di quelli che si avvalgono dell’Irc.

Ancora sui crocifissi

di Giancarla Codrignani

Il 18 dicembre 2009 è stato presentato al Senato il disegno di legge 1947 per iniziativa di autorevoli rappresentanti del Pd (Ceccanti, Chiti, Chiaromonte, Del Vecchio, Di Giovanpaolo, Giaretta, Lumia, Maritati, Pinotti, Yonini e Treu) che intende stabilire norme generali sulla presenza dei crocifissi nelle aule delle scuole italiane.

I senatori si rifanno alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che, il 3 novembre 2009 ha recepito la denuncia di mancato rispetto della libertà religiosa a carico dell’Italia per l’esposizione nelle scuole, ormai multiculturali, del crocifisso e stigmatizzano l’abbandono di quei «margini di apprezzamento statale» che di norma, a Strasburgo, rispettano i costumi nazionali. Riprendono inoltre il dibattito che si era svolto in margine alla sentenza e che aveva avuto toni abbastanza polemici tra i diversi poli critici e che aveva rinverdito il conflitto già sorto quando la Corte costituzionale, nel 2004, si era riparata dietro un elusivo non liquet di fronte alla richiesta del Tar del Veneto per analoga denuncia, sostanzialmente rimandata al mittente per incompetenza sui regolamenti in materia di arredo scolastico. Tuttavia anche la Consulta ritenne in quell’occasione ovvio il giudizio di violazione dell’equidistanza dello Stato rispetto alle diverse religioni e altrettanto ovvia la pretestuosità di rendere il crocifisso simbolo nazionale, quando è «visibilmente» religioso.

Oggi un costituzionalista del calibro di Augusto Barbera giudica «sorprendente» la sentenza di Strasburgo che generalizza un concetto di laicità che in Europa è proprio solo di Francia e Turchia. Stefano Ceccanti, peraltro, invitava già nel 2004 la nostra Corte a recarsi in Baviera, dove le singole scuole decidono le modalità del rispetto delle confessioni minoritarie. Dice Augusto Barbera sul supplemento di Avvenire dell’8 novembre 2009 (e la citazione è stata ripresa nella relazione introduttiva al disegno di legge): «È un tema troppo importante sia per chi è contrario e sia per chi è invece favorevole all’esposizione del Crocifisso, che non può essere lasciato né a fragili circolari o regi decreti né affidato ai soli giudici di Strasburgo. Ben venga quindi un progetto di legge che consenta al Parlamento italiano – sia alla maggioranza che alle opposizioni – di esprimersi solennemente, magari distinguendo fra le aule scolastiche e gli altri edifici pubblici e valorizzando nelle attività scolastiche anche altre culture religiose minoritarie».

I proponenti ritengono, dunque, che sia errato sia il divieto di esposizione di simboli religiosi, sia l’obbligo di esposizione che sarebbe tuttora vigente per l’oblio caduto sull’art. 118 del Regio decreto 30 aprile 1924 fin qui non cancellato dalla normativa. Di fronte ad una presunta necessità di normare, anche per la presenza in Italia dell’autonomia scolastica, si esclude, in caso di conflitto, il ricorso sia a votazioni che dividano maggioranze e minoranze nelle scuole, sia al veto.

Di conseguenza la soluzione predisposta dall’articolato (di tre soli articoli), dopo aver stabilito il valore della cultura religiosa, del patrimonio storico italiano e dei valori costituzionali democratici ritiene che «in ogni aula, con decisione del dirigente scolastico, è affisso un crocifisso». Se «l’affissione» è contestata, si cerca un accordo in tempi brevi «anche attraverso l’esposizione di ulteriori simboli religiosi»; se non c’è accordo, il dirigente scolastico «adotta» la soluzione che realizza il più ampio consenso.

A questo punto avrei molto da dire. In primo luogo si usa pensare che sia un peccato che la nostra Costituzione non menzioni la laicità. Sarebbe bene rendersi conto che, alla fine del 1947, alla vigilia della definizione della Carta fondamentale, l’onorevole Giorgio La Pira chiese che si premettesse un preambolo di principio: «Il popolo italiano si dà questa Costituzione nel nome di Dio». La proposta apparve inopportuna a molti e La Pira la ritirò: resta il riconoscimento che la Repubblica italiana ha scelto la laicità.

Questo, ovviamente, nulla ha a che vedere con la fede religiosa dei cittadini, sufficientemente mortificati dal 1924, quando il crocifisso era esposto (quasi a rinnovare la crocifissione) tra il ritratto del re e quello di Mussolini. Che gli amici senatori citino le benemerenze del cristianesimo, religione del «Figlio dell’Uomo» e la lettera ai Galati di Paolo, la dichiarazione universale dei diritti, le convenzioni internazionali, il Vaticano II esprime un senso di parzialità privilegiata che può non piacere, ma soprattutto in qualche modo produce quello che la chiesa delle origini vedeva come massima contaminazione: l’idolatria. Che diventa tale, se è vero che per i Comuni appare come argomento di «spesa per l’arredo scolastico», mentre per gli stessi insegnanti di religione, come nessuno studente, che dal 1924 neppure guardano il povero Cristo che sta sulle loro teste, entra nel contesto didattico. A riprova, neppure in tutte le aule delle università cattoliche è presente.

D’altra parte, trascurata dai principali organi d’informazione, abbastanza diffusa è stata la critica di personalità e gruppi di fede cattolica e teologicamente non sprovveduti che, a proposito delle recenti polemiche, hanno contestato l’ostensione «profana» nella scuole di un crocifisso ritenuto «costume nazionale».

Ma, che si riconosca o si neghi il principio di laicità su questo problema, come rispondiamo al quesito che non viene posto per la nostra ignoranza in materia di religioni e che chiede: quale risposta verrà data a chi rifiuta – e sono sia gli ebrei sia i musulmani – che Dio sia irrappresentabile in immagini umane? Gli onorevoli senatori Pd ritengono che le minoranze religiose siano, come ai tempi albertini, «culti ammessi» sui cui diritti far discutere i dirigenti scolastici caso per caso?

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