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Vivere da straniero fra gli stranieri

by redazione

Attraverso «Il popolo dell’esilio» (Editori Riuniti, Aprile 2011), Moni Ovadia manifesta una profonda vocazione per la condizione dell’esule, dello straniero, nel regno della giustizia sociale, dove i ruoli non pretendono alcun significato e le gerarchie sono abolite, nel viaggio in cammino verso l’Uomo, sulla Terra che è Santa perché la si abita da stranieri fra gli stranieri.

In pagine di alta e rara intensità, Moni Ovadia esprime la propria posizione sulla questione mediorientale, con la voce ironica e commossa di un ebreo che desidera intensamente la pace fra i due popoli, rompendo il proprio canto con quesiti difficili e oscuri presagi della discordia che separa terre e uomini. Un canto che esprime una vocazione libertaria, l’istintiva diffidenza nei confronti del potere cristallizzato, dell’autorità prepotente, contro ogni antisemitismo, indagando la verità, oltre asfittici schematismi ideologici, banali slogan propagandistici e cortocircuiti della memoria. Moni Ovadia, attraverso l’opera Il popolo dell’esilio, manifesta una profonda vocazione per la condizione dell’esule, dello straniero, nel regno della giustizia sociale, dove i ruoli non pretendono alcun significato e le gerarchie sono abolite, nel viaggio in cammino verso l’Uomo, sulla Terra che è Santa perché la si abita da stranieri fra gli stranieri, in un alto concetto di economia di giustizia, contro ogni deriva nazionalista.

Una condanna all’Europa, intrisa ancora di odio per l’altro e che non diventerà mai un’unica nazione degna finché non accoglierà le alterità e le minoranze, condannando e contrastando le ideologie xenofobe, tramite l’espulsione dalle istituzioni di capi politici che sfruttano il pregiudizio e fomentano l’odio razziale. Ovadia si schiera contro la virulenza e la rigidità sionista, delirio del confine e rivendicazione di un’identità sclerotizzata e ottusa, in nome di una «sicurezza», sul cui altare si immolano ideali di giustizia, di pace e umanità, tramite la mistica della forza del potere. Dall’opera affiora invece pressante l’esigenza di pace per far riemergere la memoria dello sterminio nazista dall’ossessione, dalla paranoia, per trasformarsi in un alto momento mnestico creativo di un nuovo umanesimo universalista, nella condizione dell’esilio in cui l’essere umano rivela lo splendore che lo conduce alla pace, all’uguaglianza, all’alleanza con gli altri esseri viventi, con l’ambiente e l’ecosistema, in sospensioni sabbatiche di spazio e tempo, in un’auspicabile diasporizzazione universale, contro la peste del nazionalismo che ingenera guerra e stermini. Occorre abitare la terra da stranieri fra gli stranieri, praticando la giustizia sociale e affermando un paradigma di relazione e accoglienza con il popolo antagonista, in un ideale sublime di erranza, nella prospettiva di una diaspora universale, precondizione necessaria per costruire la pace, dove prevalga l’idea dell’esilio come patria che riconosce le potenzialità della fragilità dell’umano, in profonde strutture dell’emozione e del sentimento comuni, in una riconoscibilità identitaria indefinita e in continua ridefinizione, di tradizioni, narrazioni, lingue, letterature, popoli senza confini, bandiere, eserciti, burocrazie, senza retorica patriottarda, in un infinito e osmotico collettivo di diaspore universali. Dunque la questione ebraica rappresenta proprio il quesito dell’alterità.

Il nazifascismo odiava l’ebreo della diaspora, sradicato, fragile, ubiquo, capace di tenere in sé le contraddizioni, l’ossimoro di molteplici identità, senza rinunciare a nessuna di esse; l’ebreo maestro del pensiero critico, padrone della dialettica del dubbio, portatore dell’idea rivoluzionaria di una redenzione universale, fondata sulla precaria, onirica, evanescente bellezza dell’Uomo fragile, inventore dell’elezione dal basso, di redenzione dalla condizione di schiavo, di straniero, oltre le logiche spietate di teocrazie nazionaliste votate all’annientamento delle diversità. La Torah è un messaggio universalista. La Torah, oltre la formazione marxista e libertaria, ispira il pensiero dell’autore nelle lotte per la giustizia sociale, per le rivendicazioni palestinesi, per tutti gli oppressi, per le donne, gli omosessuali e per i diritti del creato, degli animali che lo abitano, dove il tempo diviene lo spazio dell’esistenza nell’abolizione della logica del confine, nella vera visione universalistica ebraica. Lo Shabbat è extraterritoriale ed extratemporale, per pensare alla donna e all’uomo come soggetti di pensiero spirituale, etico, di giustizia e amore, nella relazione con se stessi, con l’altro, con la società, per alimentare i circuiti virtuosi dell’esistenza, nella centralità della vita, della dignità, dell’uguaglianza, oltre lo sfruttamento capitalistico, la mercificazione consumistica, in una bildung straordinaria, dove la società può indagare le questioni del proprio esistere, le aspirazioni e le derive, le grandezze e le miserie, le patologie e il sublime dell’Uomo fragile, oltre i falsi idoli del potere, oltre le vocazioni idolatriche. Il passato e il presente si intrecciano nei ricordi per affermare che la Terra non è stata donata per alimentare la guerra e il nazionalismo, ma per dimostrare che l’unico modo per costruire la pace è essere «popolo che sa vivere sulla Terra da straniero fra gli stranieri».

Laura Tussi

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