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Quel che resta del dialogo

by redazione

Che spazio c’è per il dialogo nel tempo del «ritorno delle religioni» sulla scena del villaggio globale e del pluralismo religioso? Se il primo aspetto presenta la sfida a rendere le religioni fattore di pace e di convivenza positiva nel contesto di una coscienza sempre più planetaria del nostro vivere sulla terra, il secondo rinvia all’esigenza del riconoscimento rispettoso e accogliente della diversità di fedi e culti, in un clima di laicità positiva. Ha ragione il cardinal Martini, per il quale «il pluralismo religioso è oggi una sfida per tutte le grandi religioni, soprattutto per quelle che si definiscono come vie universali e definitive di salvezza: se non si vuole giungere a nuovi scontri, occorrerà promuovere con forza un serio e corretto dialogo interreligioso». Il fatto è che, però, «dialogo» è un termine nato da poco all’uso ecclesiale, ma che già oggi rischia, purtroppo, di non comunicare più nulla per l’estenuazione, la banalizzazione del suo utilizzo. Per la facilità eccessiva con cui vi si ricorre, senza elaborarlo, fino a erigerlo a inservibile «parola-talismano». E per molti altri motivi…

Non sorprenderà, dunque, che l’esperienza del cosiddetto «Confrontone», il numero monografico in uscita nel mese di settembre di ogni anno, ormai consolidata e giunta alla sesta tappa, dopo argomenti quali la geopolitica del sacro, i nomi di Gesù, le donne di Dio, il problema dell’ambiente e delle sue relazioni con l’universo delle religioni e delle Chiese, e la violenza e la guerra perpetrata in nome di Dio, si soffermi ora sul tema, cruciale, del dialogo. In chiave interdisciplinare e pluralista, come sempre. Ben sapendo che si tratta, oggi più di ieri, di un work in progress.

In realtà sembra proprio una fase critica, quella attuale, per il dialogo, ecumenico, interreligioso e interculturale. Dopo stagioni di primavera, stiamo attraversando un’epoca invernale, a tutti i livelli, salvo rare eccezioni. Per questo, è decisivo verificare le cause di quanto sta accadendo, gli scenari, i punti di vista, così pure le speranze ancora in campo (nonostante tutto).

Sarebbe ingeneroso, del resto, se il pesante clima politico-culturale odierno e l’intransigenza generalizzata quanto pervasiva ci facessero trascurare che tra donne e uomini «diversamente credenti» non si danno solo diffidenze o conflitti aperti, ma altresì esperienze d’apertura e fiducia reciproca… Le «buone pratiche» in tal senso, fortunatamente, non mancano! E se svariati ambienti avvertiti hanno colto da tempo come sia vitale passare dal «dialogo delle buone maniere e dei salamelecchi» al «dialogo nella verità e nella franchezza», tali esperienze risultano purtroppo spesso poco notiziabili, per cui non varcano la soglia d’attenzione del grande pubblico.

È importante raccontare il positivo che si dà, ma resta annegato nell’informazione allarmistica e urlata cui siamo ormai rassegnati. Come annota Raimon Panikkar, non possiamo negare che «senza dialogo, le religioni si aggrovigliano in se stesse oppure dormono agli ormeggi… o si aprono l’una all’altra, o degenerano». Per questo, il dialogo autentico, lungi dal farci smarrire la nostra identità come molti temono, è l’unica via per evitare la degenerazione delle religioni. E fornisce ai credenti un’opportunità per esaminare assieme l’universale tendenza umana all’esclusivismo, allo sciovinismo e alla violenza che tendono a infettare il comportamento e lo sguardo religiosi.

Su tutto, una domanda: come rilanciare il tema del dialogo? Interrogativo complesso! Peraltro, al dialogo non esiste alternativa. Il problema, piuttosto, riguarda la sua praticabilità, in un panorama di penose strumentalizzazioni politico-mediatiche e di scarso ascolto reciproco. La globalizzazione in atto, poi, contrariamente a quanto ci si poteva ingenuamente aspettare, invece che a un indebolimento delle identità (reali o immaginarie), sta conducendo piuttosto a un loro irrigidimento che non coglie le potenzialità positive pur presenti nell’inedito incontro di uomini, donne e culture che si va producendo, tendendo invece ad enfatizzare diffidenze e timori che inducono alla chiusura e alla contrapposizione. Certo, il dialogo è in crisi! A un decennio dal passaggio di millennio, viviamo sospesi fra un disincanto generale e l’abbaglio di una cronaca che ci tiene avvinghiati a un presente privo di spessore storico e di aperture sul futuro. Di questa crisi bisogna discutere (e ben poco lo si fa), cercare di comprenderne le ragioni profonde, osservando bene il contesto in cui essa si inserisce. Ecco dunque l’obiettivo di questo nuovo «Confrontone»: presentare tale crisi, aggredirla, immaginare il suo superamento, riflettendo su «quel che resta del dialogo». Con la dovuta franchezza, come facevano i primi cristiani. Con la necessaria parresìa.

Brunetto Salvarani

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