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Quando le radiazioni accecano i cervelli

by redazione

Secondo il presidente di Legambiente, il drammatico disastro di Fukushima segna una svolta irreversibile nelle politiche mondiali dell’energia. L’atomo da grande risorsa torna ad essere quello che è: un rischio insostenibile, alle attuali conoscenze.

Di fronte all’evidenza dei fatti dispiace vedere tante stimate persone, e intelligenti, reagire in modo scomposto, chi perso dietro la religione scientista della tecnologia a tutti i costi, chi, più prosaicamente, assoldato al carro dei grandi gruppi monopolistici.

In questo periodo, mentre milioni di giapponesi (e non solo) sono in preda alla più profonda angoscia per le sofferenze scatenate dallo tsunami e per la diffusione delle radiazioni dalla centrale atomica di Fukushima, qui da noi abbiamo assistito al succedersi di dichiarazioni certe e incontrovertibili sulla innocuità e sulla sicurezza del nucleare, che dopo qualche giorno si sono rovesciate nel loro opposto. Distinguo, salti logici, inversioni ad U, tutte intrise di qualche luogo comune.
Il primo luogo comune è quello dell’emotività. Gli esponenti politici della maggioranza, questa volta allargata ad una parte dell’opposizione, Casini in testa, e il buon Chicco Testa a fare da damigella d’onore, hanno prima minimizzato, poi, di fronte all’impossibilità di negare la tragedia, complici forse le raccomandazioni alla prudenza del sindaco di Roma Gianni Alemanno, che si è ricordato delle sue antiche dichiarazioni antinucleari, si sono appellati alla necessità di non farsi prendere dall’emotività e hanno chiesto una pausa di riflessione «almeno fino alle amministrative» (ma poi si è deciso per un anno, ndr), come ha genuinamente teorizzato il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, continuando a stigmatizzare di sciacallaggio chiunque la pensi diversamente da loro. E tutti dietro ordinatamente in fila per due: Romani e Saglia, Gasparri e Sacconi… Fuori dal coro, come gli succede di tanto in tanto, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, che a Cernobbio ha coniato la nuova categoria del «debito nucleare», individuando con rara capacità di sintesi, in due parole, il vero problema del nucleare.

Sul secondo luogo comune si sono distinti scienziati del calibro di Veronesi e Boncinelli, che si sono lasciati andare ad affermazioni avveniristiche che con la scienza (e con i temi di cui sono competenti) hanno ben poco a che fare. Veronesi su la Repubblica del 19 marzo sostiene che «è scientificamente vero che senza l’energia nucleare il nostro pianeta non sopravviverà», Boncinelli sulCorriere della sera del 16 marzo afferma che «al nucleare non ci sono vere alternative». Un vero esercizio di ignoranza, nulla di grave se non fosse che costoro, il primo perfino nel ruolo di presidente dell’Agenzia per la sicurezza nucleare, usano il buon credito acquisito nei loro campi specifici su un terreno di cui dimostrano di non sapere nulla. Non solo tutti i Paesi civili, compresa la Cina, hanno dichiarato di voler rivedere i programmi nucleari. Ma soprattutto esistono proiezioni serie sugli scenari energetici al 2050 (fatte dalla Mc Kinsey e dall’Agenzia federale tedesca per l’ambiente) che prevedono come possibile che tutta l’energia elettrica consumata in Europa nel 2050 venga da fonti rinnovabili.

Un altro luogo comune che mette d’accordo tutti, politici e scienziati, è che la crisi del petrolio ci obbliga ad usare l’atomo. Peccato che la Francia, il paese a più alta intensità di energia nucleare, abbia i consumi procapite di petrolio più alti d’Europa, sia perché la rigidità produttiva del nucleare richiede l’importazione di energia prodotta con il petrolio nei momenti di picco dei consumi, sia perché il petrolio è soprattutto usato per il trasporto, settore in cui il nucleare non porterebbe alcun vantaggio. In genere poi si aggiunge come ciliegina sulla torta che con il nucleare diminuirà la nostra dipendenza energetica. Peccato che noi dovremmo importare non solo l’uranio (per il quale le previsioni ottimistiche parlano di riserve disponibili, agli attuali livelli di consumo, per 50-80 anni, più o meno come per il petrolio) ma anche la tecnologia, perché i brevetti per l’Epr (reattore nucleare europeo ad acqua pressurizzata, ndr) sono tutti francesi.

Infine l’argomento più irrazionale, usato proprio dai paladini della razionalità, «il rischio zero nella vita non esiste» (Boncinelli). Vero, ma quello che sfugge ai nostri scienziati e opinion makers – e che, se pure in una logica tutta economicistica, non è sfuggito a Tremonti – è che il rischio nucleare è a tempo indeterminato, si sa quando inizia, se c’è l’incidente, ma non si sa se e quando finiranno gli effetti. Lo stesso vale per le scorie.

La domanda allora si pone in modo chiaro e inequivocabile: ne vale la pena? È una domanda nient’affatto emotiva. L’alternativa c’è, basti pensare che il fotovoltaico e l’eolico prodotti negli ultimi tre anni (compreso l’anno in corso), sommati all’energia risparmiata grazie alla detrazione fiscale del 55% per interventi di riqualificazione energetica degli edifici, equivalgono all’energia prodotta da tre centrali nucleari Epr da 1600 Mw. Il tutto in tre anni, con finanziamenti irrisori rispetto a quelli necessari al nucleare, senza collocare sul territorio rischi irrisolvibili e senza tempo. Non ne vale proprio la pena.

Vittorio Cogliati Dezza

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