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L’incoscienza civile: un male italiano

by redazione

Il fatto che, vent’anni dopo Tangentopoli, corruzione e malaffare siano tornati «di attualità» ci induce al pessimismo non soltanto perché sappiamo tutti bene che in realtà si tratta di una piaga mai debellata, ma anche perché l’opposizione civile – quel che ne resta, dopo quasi un ventennio di degrado berlusconiano – è ancora più indebolita e scoraggiata.

Dopo diciotto anni siamo ritornati al punto di partenza. L’«età berlusconiana» è stata una stagione perduta non solo al risanamento economico, ma ancor più a quello civile. L’ondata di fango che, dopo vent’anni di retorica «federalista» interna, proprio partendo dalle regioni sta sommergendo l’intera classe politica italiana – e che non distingue fra i molti colpevoli, i non molti innocenti, e gli innumerevoli complici e conniventi – è il prodotto di un degrado di cui il Paese si stupisce di nuovo proprio perché rimane incapace di assumersi la responsabilità del disastro. Che non è stato soltanto il disastro economico in atto, o il precipizio senza ritorno oltre il cui orlo un anno fa ci stava spingendo il peggior politicante comparso nell’Europa occidentale dalla fine della seconda Guerra mondiale. Vent’anni fa, di fronte alla scoperta delle dimensioni della corruzione, lo stupore era stato maggiore, ma, pur con qualche eccesso giacobino, la «società civile» sembrava un serbatoio di risorse ancora vitali. Purtroppo le classi politiche non si improvvisano. Gli eroi politici della breve stagione referendaria vinsero la lotteria ma persero subito il biglietto. Dai bassifondi della cosiddetta «Prima Repubblica» si propose allora come leader della nuova stagione, a un Paese senza anticorpi culturali e civili, un uomo che era il peggiore e diretto prodotto del sistema politico morente, e che rappresentava una nuova versione autentica di quel che Piero Gobetti aveva definito settant’anni prima «autobiografia della nazione». E il Paese se ne lasciò nuovamente sedurre. Come aveva visto Gobetti, quell’autobiografia non era nata con il fascismo, non era necessariamente legata al totalitarismo del Novecento, ma veniva da molto più lontano. Vecchie tradizioni autoritarie e servili, un’antica riluttanza a ogni assunzione di responsabilità, il rifiuto di regole comuni, la ricerca della protezione non nella legge ma nella benevolenza del brigante divenuto signore, bendisposto e bonario con i servi ma guidato nelle faccende che contano solo da istinti guerrieri e da un appetito da squalo. E naturalmente devoto senza riserve a una Chiesa di nuovo disposta, finché possibile, a venire a patti, a fare affari, ad assolverlo e a coprirlo. Si sacrificava qualche vittima illustre, volavano parecchi stracci, ma intanto il malaffare riprendeva più vigoroso che mai. Il nuovo potere era insofferente di freni, contrappesi, garanzie, regole, controlli: cioè di tutto quel che costituisce l’essenza della democrazia liberale e costituzionale, spregiata – come settant’anni prima – come ridicolo orpello ottocentesco, incompatibile con progresso, velocità, decisione. Non per questo rinunciava a definirsi addirittura «liberale», trovando orde di giornalisti e presunti oppositori disposti ad avallare la truffa e a far proprio il «newspeak» dei creativi di Publitalia. I supposti avversari riuscivano in qualche occasione a utilizzare l’opposizione civile ancora forte nel Paese per vincere e mandare avanti qualche illustre faccia pulita cui affidare per qualche mese i lavori pesanti; per spodestarla poi alla prima occasione e aprire gioiosi gli sportelli di qualche patetica «merchant bank in cui non si parla inglese», buona a garantire qualche consorteria e qualche corporazione di famiglia. Solo grazie a una casuale coincidenza dei tempi fra un referendum costituzionale e un momento di saturazione della maggioranza dei nostri concittadini elettori, oggi non abbiamo anche una Costituzione da Repubblica delle banane, con le firme di Calderoli e Gasparri al posto di quelle di De Gasperi e De Nicola. Il nuovo potere si è divorato da sé, con la propria stessa incontenibile voracità, con «hybris» penosa e ormai senile. Ma le riserve vitali della società civile sembrano ormai esaurite anch’esse. Quel che ne resta, rinselvatichita, sembra entusiasmarsi per nuovi pagliacci. E la mancata opposizione dell’«età berlusconiana», mentre con B cova l’ultima porcata in materia elettorale (dopo quella europea), si divide fra le vecchie cordate delle nomenclature salvatesi dal naufragio e i fautori di un ricambio meramente biologico e altrettanto incapace di fare i conti con le responsabilità per la mancata opposizione. Come se non fosse bastato il più profondo ricambio biologico della storia della Repubblica, quello del ’94, che ci ha regalato vent’anni di degrado e da ultimo i giovani Fiorito e Maruccio. Ce ne aspettano molti altri così, perché quasi tutti quelli migliori si tengono lontani da una politica effettivamente orribile, e ormai descritta, come novant’anni fa simultaneamente da destra e da sinistra, come un inevitabile covo di ladroni.

Felice Mill Colorni

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